Avevamo
quindici, vent'anni: erano i primi anni Novanta.
Se ci piaceva
qualcuno lo scrivevamo sul diario di scuola o su quello personale, a
casa, in qualche caso risparmiando sul futuro analista. Ne parlavamo
con le amiche e gli amici, aspettando magari l'occasione giusta.
Oppure la telefonata pomeridiana al telefono di casa.
Magari
scrivevamo anche dei biglietti, o delle lettere; e se la relazione
era a distanza l'arrivo del postino diventava l'evento cruciale della
settimana.
Sì, perché una lettera può metterci tre, quattro giorni
ad arrivare, perfino una settimana. E se si fosse persa? E'
impossibile che non mi risponda. O questa volta andrà così?
Il
“sospetto agitato” di cui scrive il poeta Nazim Hikmet è
l'immagine perfetta di una busta chiusa che “non so cosa contenga e
da chi”. Se c'è, s'intende.
Giorni
interi a farsi domande, a rimuginare, a soffrire. Aspettare e
soffrire, due cose che abbiamo disimparato a fare perfino noi della
generazione di mezzo, che pure abbiamo conosciuto le cabine
telefoniche pubbliche, gettoni e tessere che dettavano la durata
della nostra passione, ma anche dei pettegolezzi con le amiche,
insomma un primo orgoglioso presidio di libertà fuori dalle mura e
dalle orecchie domestiche.
Nell'adolescenza
e nella prima giovinezza sapevamo soffrire, sapevamo forse gestire
meglio l'ansia della comunicazione, semplicemente perché non c'era
alternativa.
I primi cellulari sarebbero arrivati dopo- ricordo il
mio primissimo Eriksson verde con sportellino- , e comunque soltanto
con gli SMS, la cosa più vicina a un biglietto, ma più immediato.
Ancora poco nevrotico, però, all'inizio.
Sbaglierò
forse, ma non mi sembra che la risposta tardiva a un messaggio
causasse l'impazienza che oggi ci provoca una doppia spunta blu di
WhatsApp a cui non segue subito un segno di vita da parte del nostro
interlocutore. Dobbiamo rispondere subito, subito, perché non farlo?
Ma la domanda vera, noi lo sappiamo e in fondo è questo che ci
angoscia, è piuttosto il contrario: perché farlo?
Per
lo stesso motivo per cui rispondevamo alle lettere, riempivamo di
pensieri e parole le pagine di quel quaderno con la copertina rossa,
o ci decidevamo a fare quella telefonata: perché ci interessa.
E
l'altro/a lo capirà proprio nell'esatto istante in cui accade, anche
se è passato del tempo. Anche se tre o quattro giorni possono essere
eterni (e, soprattutto quando si è vecchiotti e impazienti,
determinare un esito fatale).
Anche
le email, poderoso strumento di comunicazione, hanno annullato
completamente la rassegnazione di dover aspettare, anche dare il
tempo se necessario, perché diamo per scontato che dell'opportunità
di rispondere si possa, anzi si debba, approfittare immediatamente.
Non
dopo qualche giorno, ma al massimo dopo qualche ora. In caso
contrario noi soffriamo, non è vero?
La tecnologia- mi sento
orrendamente vecchia mentre lo scrivo- ci ha aiutato a comunicare i
sentimenti, perfino con gli emoticon che possono essere
alternativamente un arricchimento grafico delle emozioni o un comodo
escamotage da analfabetismo di ritorno- e allo stesso tempo reso più
difficile gestire una parte fondamentale di queste emozioni: la
frustrazione e la sofferenza dell'attesa.
Quel
tenero “quando mi risponderà?” che cominciava non appena
imbucavi la lettera ha ormai una soglia di tolleranza inesistente:
non possiamo più incolpare le Poste ma soltanto la distrazione
altrui, o magari una chat più interessante, o perfino la volontà di
non risponderci anche dopo aver letto il nostro messaggio o mail.
Penso
con molta curiosità e un filo di preoccupazione agli adolescenti di
oggi, che non hanno proprio conosciuto l'alternativa, ma soltanto un
mondo in cui puoi essere sempre connesso, reperibile in molti modi,
geolocalizzabile, in cui addirittura in una conversazione scritta gli
altri possono sapere se hai letto o no il loro messaggio, e nei casi
peggiori chiedertene conto.
Un mondo in cui sappiamo che le nostre
domande, invocazioni, lamentazioni o gioie arrivano immediatamente, e
che quindi devono essere soddisfatte in maniera altrettanto rapida.
Ma è lecito, giusto, realistico e perfino umano aspettarselo?
Il
finale, comunque, è o dovrebbe essere sempre lo stesso: vedersi di
persona, che è sempre la prova delle prove. Perchè la faccia
dell'altro/a è sempre l'emoticon più efficace di tutti.
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