Oggi
ho dovuto riscrivere rapidamente il mio curriculum e pure una
brevissima biografia. Lo sgomento mi ha colta dopo pochi minuti,
davanti a quei files tutti diversi: aggiornati e no, ma soprattutto
di varia tipologia e estensione.
Quei fogli “formato europeo”
raccontano, nero su bianco, un percorso apocalittico tra i più
diversi lavori, anche “disintegrato” per via della sua
frammentazione, delle sue interruzioni, discrepanze, soprattutto
delle tipologie diverse di cose fatte.
Lontanissima
dal capire cosa potrebbe voler dire per un selezionatore del
personale (sei molto figa perché non sei stata quasi mai ferma o al
contrario è un iperattivismo isterico e poco centrato?), mentre mi
affaticavo a condensare il mio percorso- quindi me- in poche righe mi
è venuto in mente che forse la mia è una situazione comune a molti
della mia generazione, quella degli anni Settanta e qualcosa (ma
ormai possiamo serenamente attaccarci anche gli anni Ottanta).
Da
un certo punto in poi, cioè, abbiamo – spesso con ritardo-
cominciato finalmente a capire che quello che avevamo studiato poteva
anche non servire a molto, e che dovevamo adattarci. Fatto.
Fatto una
volta, due, dieci, cento. Questo non è di per sé negativo,
semplicemente è il tempo che ci è toccato in sorte, fatto di andate
e ritorni dal lavoro, di precarietà, di flessibilità disonesta e
talvolta di opportunità: ma quando ci sei dentro non vedi
chiaramente cosa c'è dietro l'angolo, o in lontananza.
E
ancora oggi non sappiamo bene come siamo messi: sappiamo però che
quindici-vent'anni non sono passati invano e hanno irrimediabilmente
disgregato più generazioni. Ascoltate
qui i podcast
di “Tutta la città ne parla”, segnalatomi da un'amica, sul tema
dei 30enni e oltre senza lavoro.
Il ricercatore intervistato afferma
che “la novità degli ultimi anni è che ci sono molti passi
indietro rispetto al passato, succedono cose che non permettono più
di scandire le tappe della vita personale. Tutto ciò provoca un
disorientamento molto forte, è un cambiamento epocale in cui la parola
futuro fa paura anche ai ragazzi di 16-17 anni”, che vedono quelli
che per noi erano i “vecchi”, cioè i genitori o quelli della
loro età, in balia di un presente maligno e di un futuro incerto.
I
giovani, insomma, sono l'appendice indifesa di un tempo
“interessante”, alla maniera dell'antica maledizione cinese: ma
almeno loro vengono menzionati, quindi esistono.
I
dati Istat sulla disoccupazione a febbraio (qui Il
Corriere: “Risale la disoccupazione, ma scende quella giovanile”:
ma
non viene precisato che la cifra è identica, e cioè 0,1%)
mostrano, al di là dei numeri, alcune caratteristiche interessanti:
l'aumento della forza lavoro adulta- a
febbraio 2016 ci sono 286 mila occupati con più di 50 anni rispetto
all’anno precedente (+3,9%) e 17 mila in più rispetto a gennaio
(+0,2%) a
fronte di cali nelle fasce di età centrali (tra i 25 e i 49 anni) di
210 mila persone nell’ultimo anno e 125 mila nell’ultimo
mese.
Dalla
rilevazione sono esclusi gli inattivi, che cioè non studiano e non
lavorano: significa che i senza lavoro sono effettivamente molti di
più.
Questi
elementi
non rientrano
mai nella titolistica dei media, cioè di chi dovrebbe comunicare la
notizia.
Viene
dato risalto invece all'aumento di ben 0,2% punti, nell’ultimo
mese, del tasso di occupazione tra i 15-24enni e del loro calo di
inattività (-0,3 punti al 74,3%), che, lo ricordiamo, potrebbe anche
essere il fatto che si sono iscritti a un qualsiasi corso
professionale.
Quindi
è rilevante, in un Paese di milioni di abitanti, uno 0,2% tra i
quindici-sedici-diciassettenni o ventenni, quelli che dovrebbero in
qualche modo studiare, almeno nel Paese della terza media come titolo
di
studio
più diffuso.
Quelli
che hanno paura, e a ragione, della parola “futuro”. Perchè
hanno visto fallire i fratelli e i genitori, quelli
che un vecchio pezzo di “Avvenire” definisce “gli altri NEET”-
quasi
sempre, va detto, per cause di forza maggiore, perché è un'età
infelice per re-istruirsi, per ri-ciclarsi, re- inventarsi
nonostante fiorisca da tempo una mitologia del “cambio vita
a
quarant'anni” alimentata da alcuni rari casi.
Una
categoria che include i “giovani” e gli “ex giovani”, immersi
in una terra di nessuno di cui non riusciamo a delimitare i confini
anche anagrafici, ma soprattutto sentimentali, intesi come progetti e
impulsi di vita.
Lamentarsi,
è ovvio, non serve a granchè, se non ad attutire il colpo del
crollo delle certezze. Che però, ormai, visto che il cambiamento
epocale va avanti da almeno una quindicina d'anni, riguarda forse più
le generazioni precedenti che la nostra. Noi possiamo giusto
prediligere il presente rispetto al futuro, in una sorta di religione
del tutto personale che ci vieta i programmi a lunghissima scadenza o
al contrario ci deve far vivere le cose d'istinto, qui e ora, senza
pensarci troppo.
E
se abbiamo fatto tante cose, tanti lavori diversi, e ci sentiamo un
po' tutto e quindi niente di preciso, dobbiamo comunque stare
tranquilli: ogni pezzetto ci ha fatti come siamo adesso, e quello che
sappiamo oggi- e che ci piace oggi,
e che quindi ci fa andare avanti oggi-
è il frutto, anche, di quella piccola-grande disgregazione. E quindi
è andata bene così.
Etichette: curriculum, disoccupati, francesca madrigali, Istat, Italia, la mia generazione, lavoro, neet, occupati, occupazione, quarantenni, sardegna