Ho visto anche genitori felici (del perché l'abbiamo fatto e lo rifaremmo, nonostante tutto)

Avere figli o non averne, e perché. Non solo (forse non più) problema individuale ma collettivo, di stile di vita, soprattutto per i trenta-quarantenni di oggi. Forse il vero spartiacque con le generazioni precedenti, insieme alla questione del lavoro.

Cosa ci sia accaduto, a noi nati negli anni Settanta, sarà presto (se già non lo è) oggetto di studio. Cosa esattamente ci abbia portati a essere così inutilmente complicati su una questione basilare, impulso vitale e anche, qualche volta e normalmente, accidente di percorso, è una materia interessante. 
Segnalo un post interessante su chi non ha figli e sta bene così, che spiega dal punto di vista delle emozioni e delle sensazioni perché la voglia di fare figli può “passare completamente”. C'era, ma passa.

Può succedere, anche se è assai più tragico il contrario, e cioè arrivare a una età in cui non è più possibile scegliere (tralascerei qui i asi estremi resi possibili dalla scienza) e rendersi conto di non poter più tornare indietro.

Sono, certo, opzioni di vita, talvolta scelte obbligate, comunque eventi allo stesso tempo intimi e collettivi, che meriterebbero molte più riflessioni. Possibilmente “laiche”, nel senso pieno del termine. Cioè non contaminate da pressioni sociali, familiari, personali. Qualche giorno fa un'amica che lavora a contatto col pubblico mi raccontava orripilata delle signore anziane che discutono di maternità (altrui) e bollano col marchio d'infamia chi non si è riprodotta, manco fosse uno stigma biblico: “una donna non è completa se non ha figli”.

Si tratta evidentemente di una falsità biologica, storica, filosofica: giusto i puzzle o l'uncinetto si “completano”, per tutto il resto ci sono le numerose donne che conosco personalmente, perfette in ogni loro pezzo anche senza aver generato figli. Altrettanto evidente è lo sconcerto prodotto dal cambiamento di un modello sociale prevedibile, quello del lavoro-famiglia-figli.

Questo cambiamento va avanti da molti decenni e vede la fertilità delle coppie italiane ridursi drasticamente fino ad arrivare agli ultimi dati (una consistente riduzione delle nascite, che da 514.308 nel 2013 passano a 502.596 nel 2014);
con un tasso di fecondità che è del 1.37 in Italia, 1.1 in Sardegna. Che è anche la regione d'Italia, in tutte le sue province, in cui l'età media della madre primipara è la più alta (32, 86 anni). (tutto, ovviamente, su www.istat.it).

Ma una volta assodato che una donna, un uomo, in generale una coppia possono vivere con felicità e pienezza la loro vita, di fatto bastandosi, mi piacerebbe spendere due parole su chi li ha fatti, i figli.
E non solo è sopravvissuto, con altrettanta pienezza, ma lo rifarebbe domani. Di chi pensa che sia stata la cosa migliore realizzata nelle vita, non per questo sentendosi l'unico/a al mondo (è una fissazione dei nostri tempi, quelli del “figlio unico”: ma, ehm, l'utero e il seme ce l'abbiamo un po' tutti, eh).

Il primo punto è che avere figli è una decisione irreversibile, e non tutti siamo fatti per questo tipo di cambiamento. Molti di noi amano le situazioni stabili, il momento presente più di tutto, la perfezione di una felicità attuale che non vogliono sconvolgere: al sensazione di “pienezza” di cui parla l'autore del post sopra.
E' legittimo, perché il problema sta semmai nel riconoscere e nell'ammettere quale tipo di vita, a monte, va bene per noi. Un figlio non lo puoi rimandare indietro, non puoi cambiare idea, e soprattutto non sai come sarà lui/lei e come diventerai tu: orrendo come certe persone devastate dal cambiamento o integro come prima?

Il secondo punto, forse più importante, è che avere e crescere i figli
è un fottuto lavoro.
Non retribuito, non riconosciuto socialmente nella sua importanza (perché, mi perdoneranno i politicamente corretti, si contribuisce di più alla collettività e alla società riproducendosi che non facendolo. Vedi alle voci natalità, età media degli abitanti, della forza lavoro, dei servizi, delle pensioni ecc ecc), noioso e pieno di problemi.

E' un terzo lavoro, e non tutti vogliono farlo o ne hanno le forze nella pratica: perché prima c'è la nostra vita da vivere, poi la professione, infine l'allevare la figliolanza.

Quindi, al netto delle romanticherie che ammorbano il concetto di genitorialità e della retorica sull'infanzia, gli stereotipi spesso dannosissimi sulla famiglia che è tutto tranne che un pranzo di gala, e il peloso conformismo della donna “non completa” (meno dell'uomo, chè un po' di discriminazione non ce la neghiamo mai), va tenuto presente che fare figli è soprattutto un lavoro pesante, usurante.

Avete letto bene: noioso. Perchè dovrei incrinare la tanto sospirata “pienezza” della coppia o anche del singolo sobbarcandomi la cura e i potenziali casini di un'altra persona? Perchè dovrei rinunciare alla mia libertà, alle mie serie televisive, al cinema, al “bere qualcosa dopo il lavoro”? al mio tempo, perfino?

Non c'è, ovviamente, una risposta univoca. Ognuna e ognuno sa perché ha scelto di farlo, se sta andando bene, tutti ci siamo adeguati alla constatazione che non esiste un manuale delle istruzioni e che non potremo vedere, per un po', tutte le stagioni di House of Cards di fila (cito ovviamente a caso, avendone vista mezza di non so più quale annata: poi il senso di sopravvivenza quotidiano ha avuto la meglio).

Molti non praticano ancora la nobile arte dell'autodeterminazione nei confronti del resto del mondo ed è per questo che appaiono distrutti, disintegrati, addirittura, mi dicono, trasformati rispetto alla vita precedente. Ma questo – la capacità di mantenersi integri e pieni, centrati prima su se stessi e poi sugli altri- dipende da come eravamo prima, non dai figli che abbiamo generato.

Quindi non è colpa dei figli e nemmeno del fottuto lavoro. E' una nostra responsabilità, una nostra scelta e direi una nostra caratteristica, che ci riporta al primo punto: abbiamo voglia, curiosità, spinta vitale per l'ignoto e il cambiamento? Siamo forse la prima generazione che sceglie in maniera massiva la libertà individuale o al massimo della coppia, le poche nascite lo confermano.

Io – e molti- abbiamo scelto il tuffo nell'ignoto, non sapendo come sarebbe andata: qualcuno lo chiama coraggio, altri incoscienza, altri ancora “istinto biologico”. E' più semplice del previsto, più pratico, faticoso come l'avevamo immaginato. 

Ti mette alla prova non solo nei confronti dei bambini ma soprattutto nei confronti del mondo che ti circonda, quello pieno di stereotipi romantici e sessisti, insultanti dell'intelligenza dei piccoli, sfiancante per le pressioni omologanti, dai giochi gonfiabili alla religione a scuola passando per l'abbigliamento e le dodicimila attività extrascolastiche (senza dimenticare la querelle della canottiera: toglierla o no con i 25 gradi di aprile?).

Ne abbiamo voglia? No. Lo rifaremmo cento volte? Sì.

Non solo perché un giorno i miei figli potrebbero leggere questo pezzo, ma soprattutto perché oggi io – e soltanto io, in questo caso- sono una persona più varia, interessante, confermata a me stessa, più sicura anche, e solo grazie a questa esperienza.

La famosa pienezza, insomma.

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