Smettere
è facile, se sai come farlo. Intere saghe di manuali di self-help ci
martellano da anni per convincerci che possiamo farcela, di più: per
dirci che è giusto farlo.
Ma cosa? Disintossicarci, è ovvio. Dal
fumo, dalle droghe, dall'eccesso di alcol o di lavoro, dallo shopping
compulsivo, dall'uso delle tecnologie. Eh?
Non
si parla, naturalmente, di tecnologia in senso generico, chè il
computer lo usiamo tutti
e il 77 per cento degli italiani possiede uno smartphone, contro
una media mondiale del 72 per cento e quindi sarebbe improbabile al
pari del ritorno alle caverne.
Il
punto riguarda soprattuto la comunicazione in Rete:
le mail, le chat, e ovviamente i social networks. Tutti gli
strumenti, cioè, che ci servono quotidianamente per metterci in
contatto con la nostra comunità di riferimento, che talvolta diventa
anche il nostro “pubblico”: i nostri amici del
mondo precedente, o i nostri attuali
followers, insomma.
Sì,
quelli che ci mettono il “like”, il cuoricino su Instagram, che
ci ritwittano, che talvolta addirittura ci commentano, dimostrando
così che una interazione umana è possibile. I cinici diranno che è
solo una questione di “engagement”, cioè di coinvolgimento, in
ultima analisi di popolarità che si auto-alimenta; che ci
rappresentiamo soltanto per piacere agli altri, che spesso ci
mascheriamo, che sembriamo migliori di quello che siamo nella vita
“offline”.
Peccato
che non esista più una distinzione tra vita “online” e
“offline”, cioè tra noi che ci alziamo al mattino, parliamo (o
anche no, è pur sempre un brutto momento) con qualcuno, ci vestiamo,
usciamo e andiamo al lavoro, dove presumibilmente incontriamo altre
persone, e gli stessi “noi” che poi si mettono al pc o sullo
smartphone e rispondono al messaggio di un amico, intervengono nella
chat whatsApp della scuola dei figli, condividono una foto su
Facebook, scrivono un post o commentano uno status, ritwittano la
notizia che hanno appena letto su Twitter, guardano le foto su
Instagram, eccetera.
Metà
della popolazione italiana è iscritta a Facebook, precisamente il
50,3% ,
(il
77,4% dei giovani under 30), YouTube raggiunge il 42% di utenti (il
72,5% tra i giovani) e il 10,1% degli italiani usa Twitter. E' quanto
emerge dal 12° Rapporto Censis sulla comunicazione (2015), ed
è superfluo aggiungere che con questi numeri è inopportuno parlare
di “nuovi media” (nuovi per chi?), e che siamo oltre il fenomeno
di “costume”: è una svolta epocale che riguarda il presente e il
futuro, sicuramente irreversibile a meno che non si verifichi il
famoso ritorno alle caverne di cui sopra.
Un
po' didascalicamente mi piace ricordare che in ogni caso, in ogni
luogo “reale” o “virtuale” siamo
sempre noi che
ci esprimiamo e auto-rappresentiamo,
e anche se cercassimo di non farlo,
o farlo “ad arte”,
comunque prima o poi il “cuore rivelatore” del social ci
smaschererebbe. Non
tutti si pongono il problema del
corretto uso di questo tipo di tecnologia, perché moltissimi lo
intendono ancora in modo esclusivamente ludico (gattini, meme,
bufale, catene di S.Antonio, fotografie dei figli al mare, di se
stessi al mare, del mare ecc, in quest'ordine) o strettamente
pubblicitario/promozionale (cosa faccio, cosa vendo, cosa penso e di
conseguenza anche un po' chi sono). Entrambe le cose, se praticate in
maniera “esclusiva”, peraltro risultano abbastanza noiose, ma di
questo parleremo un'altra volta.
Qualcuno-
e anche io- comincia dunque ad accusare i primi (e pure i secondi)
sintomi di insofferenza, di fastidio, di senso di inutilità e di
“eco” quando usa gli strumenti social, magari perché non ha il
pubblico giusto (tutte brave persone, per carità, ma…)
Dunque
pensa che liberarsene sia la cosa giusta, basta sapere come farlo.
Fioriscono a proposito le storie epiche di chi ha “riscoperto
il piacere di vedere un amico” (ma se prima non lo vedevi quella si
chiama pigrizia o millantata “mancanza di tempo”, eh), o di
“guardare un tramonto invece di fotografarlo” (è noto infatti
che prima dell'avvento degli smartphone tutti ci piazzavamo sul punto
più alto della città ogni giorno per guardare il sole, da soli e in
silenzio).
Da
qui l'ottimo proposito: una settimana/un mese/per sempre senza
social. Ci ho pensato anche io, naturalmente, stufa del rumore di
fondo. Ma poi…
Poi
ho cambiato idea. Primo, perché ci si disintossica da qualcosa che
ci fa male, che ci fa perdere tempo o non è utile, e invece grazie
a questo tipo di strumenti ognuno si può creare una sorta di
“playlist” personalizzata di contenuti.
Poi
il “fare rete” è una opportunità straordinaria, per cui vale la
pena di provare, e infine perché sono di più le persone
interessanti che ho conosciuto (sui social e poi di persona) di
quelle infestanti, per le quali basta utilizzare i filtri appositi.
Infine,
perché “esco da Facebook” is the new “mi si nota di più se
vengo o se non vengo” e quindi, mentre decido quanto farmi
notare, almeno mi leggo due o tre cose interessanti, accuratamente
selezionate.
E'
vero che bisogna dosare e dosarsi, nel senso che i
social sono un potentissimo “istigatore”, non a delinquere ma a
esprimersi, e giova ricordare che la Rete è come la pietra, nulla si
cancella (quindi ok alle foto in bikini ma solo dalla vita in su,
eh). Quindi occhio alle cose che non sapevi di desiderare, o di voler postare. Ma i vantaggi di una frequentazione, personale o professionale, di questi "luoghi" di scambio superano ancora di gran lunga gli svantaggi, e inoltre il processo è probabilmente irreversibile. Questo non ci impedirà di smettere di frequentarli, se lo desideriamo, senza diventare dei paria, esattamente come continuare a esserci non farà di noi dei disadattati (capito, ayatollah dei tramonti dal vivo, da soli e in silenzio?).
Per
il resto, ancora tutto bene: ma forse, in ogni caso, meglio “scalare”
che interrompere di botto, vero? ;)