Piccolo elogio della vicinanza (e della solitudine)

Avevi altro da fare? O sei uscita apposta per vedere me?

La domanda un po' mi stupisce: pensavo che la ricerca della vicinanza, il contatto con qualcuno – che non è un qualcuno a caso ma una persona cara- fosse cosa ovvia, logica. Che si possa chiamare, anzi di questi tempi più spesso scrivere, a qualcuno per vederlo, per fare solo questo. Principalmente questo.

Così non sempre è, mi dice una certa lieve timidezza che per un attimo si materializza fra noi dopo la mia risposta immediata: “Certo, e per cosa se no?”.
Da molto tempo ho capito che la schiettezza equivale a una sorta di risparmio energetico nei rapporti, e la pratico con buoni risultati.

Dura poco, questa perplessità: il mio interlocutore, per quanto un po' stupito, sembra accettare di essere importante in quel momento, forse anche perché non vi è stata alcuna mistificazione, nessun filtro né equilibrismo di distanza-riavvicinamento che talvolta caratterizza anche le amicizie più solide e durature.

Il desiderio di vedere, parlare, stare a contatto con le persone che mi piacciono è fatto della stessa materia di cui sono fatte le relazioni buone, positive, concrete: e cioè di qualità e di quantità. Sulla prima non ho problemi, avendo smesso da tempo di voler cambiare chi non può cambiare, me stessa compresa, e lasciando andare il resto.

Ma la quantità, parliamone: da quanto non facciamo delle cose insieme agli amici (o anche agli amori)? Vedersi almeno una volta alla settimana, telefonarsi, mangiare insieme. Fare un tragitto insieme in macchina. Camminare chiacchierando, o anche zitti va bene. Andare al cinema, oppure uno a casa dell'altro. Eccetera.

Esattamente, da quando abbiamo smesso di farlo?

C'è, naturalmente, una base di malinconica nostalgia in tutto questo, ma anche di consapevolezza che il nostro tempo è uno solo. E la quantità degli incontri belli, del potersi rilassare, soprattutto – nei casi più fortunati- dello specchiarsi senza pretese in qualcuno di molto simile a noi, ecco, solo questo serve. 

E' qualcosa di “nudo”, necessario.
Ecco perché è normale e ovvio dare a queste “ricerca della vicinanza” la stessa importanza che daremmo a un incontro di lavoro, o di circostanza, o anche allo sport o alla cena fuori.

Vicinanza, naturalmente, non è socialità: la prima è intima, rasserenante o comunque interessante, mentre la seconda è ugualmente utile ma non sempre rigenerante. Ecco perché spesso e volentieri possiamo anche non praticarla, senza particolari sensi di colpa: meglio una solitudine silenziosa di una socialità in “loop” isterico. Meglio un libro in cui immergersi da soli, della sua presentazione o reading o spettacolo o…, meglio una camminata o una nuotata (tutte cose da fare da soli, appunto) o anche un bel niente piuttosto che infilarsi poco convintamente da qualche parte.

Ovvietà. La solitudine attenua lo spirito di osservazione, che spesso è un problema perché affatica e fa vedere la realtà- o il sottotesto delle relazioni e delle conversazioni- anche quando vorresti riposarti un po'.
Oppure lo rivolge all'interno, ma se abbiamo imparato ad essere abbastanza indulgenti con noi stessi, è un esercizio a cui siamo allenati e non ci provoca più certi dolori muscolari al cuore o al cervello.


Vicinanza e solitudine, entrambe necessarie: e in entrambi i casi godersele è anche una questione di fortuna, oltre che di diligenza e applicazione.

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