La borghesia è una delle classi
sociali nelle quali viene tipicamente suddivisa la società
capitalista (colui che possiede un capitale), secondo alcune scuole di
pensiero socio-economiche occidentali, in particolare il marxismo. Il
termine deriva da borgo, ossia
dalle parti costituenti delle città medioevali, e
di cui è rimasta ancora oggi traccia nella toponomastica
di alcune città, come nel caso dei fiorentini Borgo
San Frediano e Borgo San Jacopo. (Wikipedia)
Un tempo eravamo re, e qualcuno crede di esserlo ancora. I tempi, però, sono irrimediabilmente
cambiati, e nella polarizzazione della società fra ricchissimi e poveri, la
classe media è rimasta schiacciata. La borghesia – piccola, media, alta e
qualunque aggettivo le si attribuisse per definirne le capacità economiche e
sociali- non è certamente più quella di inizio Novecento, quella pubblica e
ministeriale o dei grandi capitani d’industria degli anni Settanta, quella del
benessere un po’ fighetto della fine del secolo scorso.
La mia generazione ne ha
potuto osservare l’evoluzione, come sempre accade a scoppio ritardato, e forse
per la prima volta nella Storia i figli stanno messi peggio dei padri, almeno
per quanto riguarda questa “fascia” di appartenenza - o di origine: perché
certamente si potrebbe salire, ma oggi più spesso si scende.
Il famoso “ascensore
sociale” si è inceppato, e con esso anche l’antagonismo vero verso i veri predatori
economici, troppo indefiniti, grandi e “finanziarizzati”.
Il caso specifico
dell’Italia è assai interessante: siamo un paese conservatore, con un grande
desiderio di aristocrazia e di nostalgia di un passato “regolare”: di quando
eravamo re, appunto. Abbiamo addirittura attribuito caratteristiche di
“nobiltà”, fascino e “superiorità” a una grande dinastia industriale come gli
Agnelli, di fatto rovesciando completamente l’originale disprezzo della vera
aristocrazia per chi lavorava per mantenersi, magari arriccchendosi ma
rimanendo sempre un parvenu.
Il
cinema ha indagato spesso il tema: Il
gattopardo (Visconti 1963), Un
borghese piccolo piccolo (Monicelli 1977), Il discreto fascino della borghesia (Bunuel 1972) sono i primi
titoli che mi vengono in mente.
Un borghese (dalla fusione delle parole borgo
e cortese) era (quindi) una persona che aveva una casa nel centro di un
villaggio anziché nel castello, e praticava un libero mestiere, che poteva
spaziare dall'artigianato al commercio, dalla medicina all'arte. Inoltre, non essendo
nobile, era escluso, almeno in origine, dalla possibilità di portare le armi e
una derivazione di questa norma è rintracciabile nel gergo militare che
definisce borghese colui che
non veste la divisa. (Wikipedia)
E’ quindi evidente che le
cose hanno cominciato ad andare storte con il predominio della finanza
immateriale sulla produzione di beni fisici, determinando così un impoverimento
concreto e sociale della classe media. Oggi il borghese mi sembra difficile da
definire, ecco perché sorrido ogni volta che qualcuno usa il termine in senso dispregiativo:
“[puah], come sei borghese!”
Si noti che spesso siffatto
insulto (?) è pronunciato da persona della mia identica “estrazione sociale” e
background culturale, quindi non vi è in esso una vera critica “di classe”, ma
un generico disprezzo per chi conduce o desidera una vita di un certo tipo. Che
se nei decenni scorsi poteva identificarsi con il benessere economico vero e
una strada sicura e segnata, soprattutto professionale e sociale, oggi indica magari il
tanto vituperato lavoro stabile, perfino una casa o una famiglia (di qualunque
tipo, però). Cose elementari, mi sembra.
Forse, quindi, vorremmo
essere tutti borghesi. O no?
Parliamone domani nella
nuova puntata de La Versione di Madry, alle h.20 su Radio X (96.8, anche
streaming), con lo storico dell’Università di Cagliari Giampaolo Salice e il
giornalista di Mediterranea online Gianmarco Murru.
Stay tuned!
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