L’ultimo caso è fresco fresco e
gravissimo: un poliziotto scrive su Facebook degli status assai discutibili sul
G8 e la scuola Diaz (che qui non riporto ma sono reperibili tramite
semplicissima ricerca Google), un altro poliziotto di Cagliari mette “mi piace”
a quello status.
Purtroppo altrettanto non accade con
il segretario leghista Salvini che prontamente rinfocola la polemica con la
solita dicotomia clandestini- poliziotti (NDR: prossimamente mi aspetto anche clandestini-zanzare,
clandestini-cellulite, clandestini-laqualunque. Lo spessore politico è quello).
Tutto si svolge sui social network (Facebook e Twitter) e poi rimbalza sui giornali e sui media.
Lo strumento con il quale si
esprime un’opinione (chiamiamola così), è sempre una piattaforma in teoria
virtuale, in realtà assai concreta, visto che chi l’ha usata sapeva (o dovrebbe
sapere, o perlomeno non fare l’innocente in seguito) che moltissime persone
avrebbero letto, condiviso, commentato.
Gli altri media non possono fare
altro che riprendere quanto sta avvenendo, ma intanto l’opinione (chiamiamola
così/2) è stata trasmessa innanzitutto sui social network.
Tra un componente delle forze
dell’ordine o una giornalista (penso al caso della Saluzzi sospesa da Sky per
gli insulti via Twitter ad Alonso) e un politico quindi ci sono alcuni tratti
comuni, quali l’incontinenza verbale e la convinzione che non porti a
conseguenze ma anzi sia una cosa molto figa, e una fondamentale differenza: che il politico ci guadagna in popolarità e
gli altri ci perdono a livello professionale e di (non solo web) reputation.
Sono episodi interessanti per capire
che la condotta online di una persona concorre a formare l’immagine di questa
persona; che il privato diventa pubblico non solo perché visibile a tutti, ma
anche perché può influenzare l’opinione che gli altri possono avere di noi.
Positivamente e ancor più negativamente, come nel clamoroso caso dei
poliziotti. Che forse non credevano- penso soprattutto al dirigente
cagliaritano- che un semplice “like” potesse causare queste conseguenze. Come se Facebook fosse una terra di nessuno
in cui ognun* può dire o scrivere quello che vuole, scorporandolo però dalla
sua reputazione, dal suo vissuto quotidiano.
Non è così, e forse questa vicenda
aiuterà anche i comuni utilizzatori dei social (come me, come chiunque non
abbia un ruolo pubblico di rilevo, una responsabilità professionale apicale, un
lavoro in qualche modo rappresentativo di qualcosa o qualcuno) a prestare
maggiore attenzione a quello che postano. Si conferma il fatto che spesso un cambiamento
di costume viene acquisito nel sentire comune soltanto quando arriva un
risultato pratico evidente, in questo caso la punizione.
Peccato solamente che questa
attenzione “sanzionatoria” arrivi solo oggi, e non si applichi -se non
raramente- a chi fa politica ad ogni livello, in questo modo assecondando la
piaga dell’incontinenza verbale e dell’ancora più pericolosa irresponsabilità.
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