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Alla vigilia del Sulkimake Humanities Lab che dal 27 al 29 marzo si
svolgerà a Carbonia presso la Grande Miniera di Serbariu, abbiamo
intervistato il professor Antonello Sanna, Direttore del Dipartimento di
Architettura presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli
Studi di Cagliari. Durante gli anni duemila, infatti, Sanna è stato tra i
protagonisti del recupero della Grande Miniera di Serbariu e degli
spazi pubblici della città di fondazione. Tuttavia, nonostante
l’importante riconoscimento ricevuto nel 2011 con il Premio del
Paesaggio del Consiglio d’Europa, il valore di questa esperienza
culturale, sociale e urbanistica è forse ancora misconosciuto.
Professore, quando è stata la prima volta che si è interessato di Carbonia e perché?
Come mestiere mi occupo di recupero del patrimonio edilizio
storico. Ho cominciato dai centri storici e poi, negli anni novanta, mi è
sembrato interessante occuparmi di prodotti più recenti, ma di qualità,
che erano un po’ più misconosciuti. Mentre quasi tutti sanno che
Firenze ha un grande centro storico, e forse anche Cagliari o Iglesias,
era invece più difficile trovare qualcuno che riconoscesse a entità
fatte per esempio a partire dal 1937, come Carbonia, questo valore
aggiunto dell’essere anche patrimonio, oltre che un semplice insieme di
volumi costruiti. Carbonia evocava altre cose: evocava la fatica della
miniera ed evocava, se vogliamo, anche la fuliggine del carbone. Ma non
evocava valori e fu per questo che cominciammo a studiarla.
All’inizio degli anni duemila l’amministrazione comunale
decide di partire dal recupero urbanistico e architettonico della città,
per avviare un’importante forma di recupero identitario della stessa.
Ci potrebbe raccontare come si articolò il progetto?
Prima che arrivassimo noi (Dipartimento di Architettura, ndr)
l’amministrazione puntava sulla miniera soltanto, poi ci convincemmo
insieme che, in realtà, città e miniera erano l’una funzionale
all’altra. La città era proprio lì, a soli ottocento metri dalla
miniera, era una vera e propria “company town” e, in un certo senso, era la città della
miniera. Entrambe rappresentavano un grande progetto e un’utopia, sia
pure autoritaria, che aveva degli aspetti molto avanzati. Perchè
Carbonia è una città giardino, inserita nel paesaggio, nel verde,
interamente progettata, sino all’ultimo dettaglio, da grandi architetti.
Ci convincemmo ben presto che se la miniera fosse riuscita a restituire
alla città ciò che le aveva tolto, sarebbe stata l’occasione del suo
riscatto. Ma questo sarebbe potuto accadere soltanto se anche la città
avesse finalmente accettato se stessa. Questo processo sarebbe stato
tanto più forte quanto più ampio fosse stato il suo perimetro di azione,
che non doveva pertanto essere limitato ai ruderi della miniera, ma
avrebbe dovuto includere anche valore umano, piazze, edifici, monumenti.
Da dove iniziò il recupero e che ricordi ha di quella stagione?
Cominciammo dalla piazza Roma, una piazza interamente d’autore.
Dal Teatro Centrale al Dopolavoro, passando per la Torre Littoria, la
Chiesa di San Ponziano e il Municipio: sono tutti prodotti o della mano
dello studio di Gustavo Pulitzer, grande progettista triestino, o dello
studio Valle-Guidi, i due grandi architetti romani che poi
abbandoneranno Carbonia per andare a fare il piano di Addis Abeba.
Lasciandola comunque al grande e brillante Eugenio Montuori e alla sua
continua ricerca di un razionalismo mediterraneo.
Nel 2004 ci fu l’inaugurazione della piazza e fu una delle grandi
emozioni della mia vita. Quando uscimmo dal Teatro Centrale trovammo
nella piazza migliaia e migliaia di persone, un numero stragrande di
abitanti di Carbonia, che invasero quello spazio. Fu in quel momento che
compresi come, effettivamente, quell’operazione avesse avuto da un lato
un significato culturale e, dall’altro, un significato sociale.
La fondazione di Carbonia ridefinisce il rapporto tra
cittadino e abitare e anticipa le trasformazioni che a partire dal
secondo dopoguerra, con il programma di edilizia popolare INA Casa,
interesseranno Cagliari e i principali centri urbani dell’isola. Come
viene ridefinito questo rapporto?
In una Sardegna caratterizzata dalla totale prevalenza
dell’autocostruzione, Carbonia rappresentò effettivamente un caso unico.
Mentre nel resto dell’isola prevaleva questo rapporto di tipo familiare
con la casa, in cui ciascuno è padrone a casa sua, a Carbonia avviene
invece il contrario. La gente, infatti, non è padrona neppure del suolo e
del sottosuolo. Perchè nel sottosuolo c’è il carbone, e quindi è della
miniera, mentre il suolo e le stesse residenze sono pubblici.
Da un punto di vista sociologico tutto questo ha sicuramente
determinato, soprattutto all’inizio, questo senso di estraneità, tra la
città e la sua architettura. I carboniesi hanno avuto bisogno di
riappropriarsi degli spazi, a volte con superfetazioni delle stesse
case. Tuttavia, seppure di dimensioni modeste, erano comunque, in quel
momento, case di eccellenza. In una Sardegna in cui nessuna casa, se non
quelle di lusso, aveva il bagno in casa, a Carbonia ogni casa ne
possedeva uno. In questo senso fu, senza dubbio, anche un modello
sociale.
Da un punto di vista sociologico e della modernità, questo
rapporto di estraneità tra cittadini di Carbonia e abitazioni è anche il
rapporto tra la Sardegna e la città stessa, mirabilmente descritto nel
1954 da Salvatore Cambosu in “Carbonia, odore di zolfo”, una delle pagine più poetiche ed evocative di Miele amaro. Quanto la Sardegna di oggi è consapevole di quel che Carbonia ha rappresentato per la Sardegna stessa?
Diciamo che ho avuto l’impressione, anzi ho la certezza, che
quando Carbonia, durante gli anni duemila, sviluppò quel programma di
riappropriazione di se stessa, si sia imposta all’attenzione dell’intera
Sardegna. La percezione che ci fossero una strategia, un obiettivo di
alto profilo e che tutto venisse fatto in funzione di quell’obiettivo si
è avuta. Poi, ad un certo punto, proprio quando nel 2011 vincemmo il
Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa (Carbonia Landscape Machine,
ndr), è anche vero che forse quella notizia non è andata molto in giro.
È passata un po’ sotto silenzio. So che però, alla fine, la
consapevolezza c’è.
Il carbone ha dato origine alla città, ma è stato anche la
causa della sua crisi e, come ha avuto modo di evidenziare, era giusto
che la miniera restituisse quanto sottratto. Tuttavia esiste un altro
materiale “locale” che può rappresentare un’importante risorsa
identitaria per il presente. Che ruolo ha, a questo proposito, la
“trachite rossa” nel caratterizzare l’intero patrimonio residenziale
della città?
Ci siamo soffermati spesso sul suo ruolo. Carbonia è,
paradossalmente, da un lato un luogo di alta tecnologia, con i suoi
macchinari e certi elementi costruttivi come le capriate in cemento
armato a sezione sottile. Dall’altro, un po’ per ideologia e un po’ per
necessità, è un luogo dove si utilizza però anche il materiale naturale,
che è quello che si cava in loco. E questo dà carattere a Carbonia. Le
sue case, infatti, certamente non sono “identitarie”, ma di intelligente
hanno questo uso di un materiale povero, come la pietra locale, ma
straordinario. Perchè tutto lo zoccolo, tutti i basamenti di Carbonia
sono fatti di trachite. È proprio questo il vero elemento unificante.
Molte delle sfide della città del XXI secolo passano da una
riduzione delle emissioni di Co2 e l’architettura giocherà un ruolo
fondamentale, a partire dal recupero degli immobili esistenti. Anche per
Carbonia si apre una nuova stagione che, dopo il recupero della miniera
e degli spazi pubblici, potrebbe adesso interessare l’edilizia privata.
Come vede l’applicazione di elementi di domotica all’architettura per
trasformare la ristrutturazione edilizia in rigenerazione urbana?
Penso che, in generale, non ci sia altra via. Se alla qualità
pubblica non corrisponde anche la qualità privata una città non si
salva. Possiamo fare tutte le piazze che vogliamo ma se dopo i
cittadini, i tecnici, non percepiscono che anche le case devono stare
dentro un certo ordine di logica, il tutto non funziona. Sono inoltre
convinto che oggi l’innovazione si deve giocare esattamente, in senso
generale, sulla sostenibilità. Pertanto abbiamo bisogno di città non più
energivore, come abbiamo fatto, ma energicamente efficienti. Possono
diventarlo in vario modo, da un lato con le energie rinnovabili e la
riqualificazione delle case in senso energetico; dall’altro, con le
città smart e quindi attraverso l’applicazione delle tecnologie immateriali.
Per concludere, nel libro Carbonia. Città del Novecento,
gli autori Giorgio Peghin e Antonella Sanna parlano di Carbonia come di
una “colonia autoctona”, quasi sospesa tra due paesaggi: un paesaggio
millenario che è quello del Sulcis-Iglesiente e un paesaggio costruito e
ricostruito, perchè comunque Carbonia cerca di integrarsi nel
territorio. Che cosa ci può insegnare questa epopea urbanistica,
mineraria e anche sociale?
Ci può insegnare che quando c’è un’impostazione
qualitativamente valida – e Carbonia lo fu perchè fu fatta con un
pensiero urbanistico con dietro anche un’utopia sociale, per quanto
autoritaria, e un pensiero urbanistico importante e al passo con le
esperienze europee più avanzate – possiamo dire che le realizzazioni
costruite in questo clima di qualità poi durano nel tempo. Nel grande
disegno paesaggistico di Carbonia – dentro una conca, affacciata su un
terrazzo che guarda verso il mare, con questo sistema di spazi pubblici,
di verde, che doveva un po’ risarcire la durezza della vita in miniera –
è sempre possibile trovare ancora oggi queste qualità. E tutto questo,
rispetto invece alla dimensione informe, priva di progetto di certe
periferie contemporane, incluse quelle di una parte dell’hinterland
di Cagliari, ci può insegnare che non è necessario creare, come direbbe
Italo Calvino, delle “zuppe di città” per fare la nuova architettura.
Come il libro di Peghin e di Antonella Sanna dimostra, la vera lezione
di Carbonia è che la nuova architettura può essere di livello e di
grande qualità. Può interpretare un territorio, anzichè banalmente
sovrapporsi ad esso come spesso, invece, dopo abbiamo fatto.
Fabrizio PalazzariEtichette: antropolgia, architettura, Cagliari, carbonia, fabrizio palazzari, francesca madrigali, inveritas, miniere, sardegna, sociologia