Quanto ha ragione Barbara Sgarzi (che
è brava e pure simpatica, cosa che non guasta affatto): Non esiste più la distinzione fra presenza online e offline. Entrambi
gli aspetti concorrono a formare la nostra immagine, in modo indissolubile.
I giornali, e i giornalisti, non
possono fare a meno dei social: inutile resistere. Per lo stesso motivo: la
quantità enorme di persone che segue i social (in Italia, molto più Facebook
che Twitter, che pure è uno strumento più adeguato per informare e per
informarsi).
Un potenziale pubblico che segue, condivide, e spesso
commenta. Spessissimo in maniera
inappropriata, quand’anche offensiva, violenta, volgare.
E poiché la presenza offline e online
concorrono entrambe a formare la nostra immagine, è il caso che i giornali
comincino a preoccuparsene seriamente. Certo, l’immondezza genera traffico, il
traffico genera introiti pubblicitari, cioè denari, e questo vale sia per i
giornali che campano solo sull’Internè, ma anche per quelli che vendo o copie
in edicola (ma di quanta roba stiamo parlando? Qui i dati).
Cartaceo e web
fanno parte di una sola entità, e compromettere la reputazione di uno o
dell’altro significa commettere un gravissimo errore. Allo stesso tempo, gli individui singoli
dovrebbero avere ben chiaro che tappezzare Facebook con foto, immagini,
esternazioni sulla politica, sulla dieta che seguono, sui nostri marò o le
cooperanti, sui rom o sulle donne, sui candycrushsaga o catene di S.Antonio,
ecc, è certamente possibile e fa parte della loro libertà d’espressione, e allo
stesso tempo racconta molto, ma proprio molto, di loro.
Della serie: poi non stupirti, eh.
Quindi, perché i giornali dovrebbero
condividere e/o ospitare immondezza sulle proprie piattaforme, se un solo
sarcastico “ah beh, questo sì che è
grande giornalismo!” brucia (o dovrebbe bruciare) più di tanti commenti
allo stato brado, ed è anche un pericoloso campanello d’allarme?
Cos’è o cosa dovrebbe essere la
“qualità” dei contenuti? E’ evidente che un giornale (quotidiano o periodico
poco importa, anche se la mia impressione è che a un quotidiano l’utente
inappropriato si affezioni di più, sapendo di trovare uno spazietto
giornaliero) non può contenere solo alta filosofia o dissertazioni sui massimi
sistemi, perché se vuole (e dovrebbe volerlo) rivolgersi a tutti, deve offire
uno spettro il più ampio possibile di contenuti. Quindi sì: anche il gossip può essere
giornalismo, anche le pagine di moda, le ricette di Nonna Papera, insomma la
leggerezza.
Non la volgarità, la rissa provocata
ad arte, la sessuomania inspiegabile (signor*, di notizie sui peni e le vagine,
sì, insomma, ne basta una ogni tanto, a meno che ogni volta non sia necessario
ricordarne il funzionamento. Ma insomma, più o meno lo sappiamo, no? Abbasta!),
tutti argomenti “sensibili” che puntualmente provocano l’effetto “uscita dalle
gabbie” di individui capaci di ogni nefandezza verbale. Commenti inverecondi, non moderati – anzi,
diciamolo: censurati, perché è questo che si deve fare-, veicolano e diffondono
solo negatività, contenuti tossici.
Non è divertente. Non è utile. Fa
venire voglia di boicottare (cioè di non comprare più) quel giornale o quel
sito. Vogliamo riscoprirci ecologisti della comunicazione?
Non perchè è “morale”, ma perché
danneggia, sia il singolo che le entità collettive (come un giornale, con tutt*
quell* che ci lavorano). Un sito d’informazione e cultura ebraica
addirittura ha avuto l’idea di far pagare agli utenti la possibilità di commentare: e con il solito cortocircuito, i commenti in calce all’articolo
esprimono uno la convinzione che “io non sono razzista, ma se loro sono
ebrei…”, e l’altro la preoccupazione un po’ ipocrita per la libertà
d’espressione così tanto minacciata -come se a chi invoca la morte per qualcun
altro, possibilmente straniero o donnaputtana,
o chi dileggia per la disabilità altrui, o chi immagina scenari danteschi in
cui far precipitare gli avversari, dovessimo garantire la stessa libertà di
espressione di noi civilizzati. Ma per carità!
Buon lavoro.
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