
Da qualche tempo penso
alla vigna dei miei nonni.
Emigrati dalla Penisola, una vita da commercianti,
avevano però anche dei piccoli terreni, nei quali, da piccola, ho vendemmiato
anche io. Ma la terra è faticosa, va seguita, e soprattutto va amata. Alla fine
li hanno venduti, semplicemente perché né i figli né i nipoti potevano o
volevano prendersene cura.
Qualche decennio dopo,
esaurita la naturale progressione dell’ascensore sociale per cui i figli
dovrebbero e anzi nell’immaginario di ogni genitore devono economicamente star meglio dei padri, l’amara verità è che
in gran parte quei nonni e quei genitori hanno cresciuto generazioni lontane
dalla manualità, dalla Natura e, appunto, dalla terra. Ma quest’ultima esiste e
resiste, è concreta e produttiva, è il presente e non l’ipotesi, laddove le
professioni intellettuali verso cui ci hanno spinto i nonni e i padri vivono un
momento di drammatica stagnazione.
Non vivo, ovviamente, una
conversione bucolica e naturalistica: amo più che mai la mia città, ho il
“pollice nero” perfino per le piante grasse, e la campagna mi piace a
piccolissime dosi. Ma una nuova tendenza va emergendo, fatta di giovani che
scelgono il lavoro nella terra e lo vivono come una delle alternative
possibili, che hanno pari (o anche maggiore) dignità di quel posto fisso che
sognavano per noi le precedenti generazioni. O forse c’è sempre stata e non ce
ne siamo accorti, impegnati come eravamo a far andare molto il cervello e poco
le mani, o a considerare la scelta di fare il contadino, il pastore o
l’allevatore come bizzarra, naif, di nicchia o di “destino”, quando non anche
di disagio.
Ho visto anche dei
pastori felici, invece: mercoledi 17, per la settima puntata de La Versione di
Madry (Radio X, 96.8 MhZ, anche streaming e podcast) dedicata appunto al
“ritorno alla terra”, ne parleremo con Stefano Lai, che fa il pastore ad
Escalaplano: genitori che lavoravano in banca e a scuola, a dieci anni sapeva
già cosa voleva fare nella vita, a 16 ha cominciato a farlo, e dopo il diploma ha
concretizzato la sua idea, che ancora oggi lo rende felice. Con noi in studio
anche il sociologo Nicolò Migheli, che si occupa da tempo di sviluppo rurale e di cui per l’occasione ripropongo l’articolo
di qualche settimana fa.
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Senza la terra
perdiamo tutto
Nel 1849 gli abitanti di Santu Lussurgiu si rivoltarono contro la borghesia
agraria che con l’Editto delle Chiudende si era impossessata dei
migliori terreni. Tre manifestanti morirono uccisi dai proprietari. In seguito
terreni comuni vennero divisi in lotti e dati ai poveri. Per qualche tempo su
quelle aree non venne chiesta nessuna imposta. Qualche anno dopo l’esattore
comunale si presentò con le cartelle per la riscossione. Pochi tra quei
contadini e pastori poterono onorarle; gli altri rivolsero ai grandi
proprietari chiedendo loro l’acquisto di quei lotti.
Un episodio della storia del paese così traumatico da essere ricordato con
la frase di uno di quei possidenti :”Si est zente po lottes, nara-ddi ca no
che seo”. Se è gente per quei terreni, di loro che non ci sono, tanta era
l’offerta che si rifiutavano di comprare. Oggi la Sardegna è destinata a
rivivere la medesima storia. I nuovi latifondisti si chiamano Matrìca
e Mossi &Ghisolfi. Una società milanese intenderebbe acquisire 17.000 ettari per la
produzione di biomasse. La svendita dei terreni verrà facilitata dall’Imu
agricola che ricadrà su persone impossibilitate a pagarla. Il destino dei
Sardi, ancora una volta, legato al modello fallito dell’industrializzazione.
Chi in questi anni ha parlato di land grabbing, è stato ignorato e
deriso. Qui da noi non può succedere, veniva detto, ci salverà la quotazione
dell’euro. Quello scudo è infranto. Siamo alla rapina delle nostre speranze. La
Regione su questo dovrebbe dare una parola definitiva. È possibile non rendersi
conto che se perdiamo le terre fertili perdiamo il nostro futuro, saremo ospiti
in casa d’altri? Lo sviluppo rurale avrà ancora senso? L’Expò 2015 ha come tema il cibo
considerato strategico nel mondo affollato e inquinato del futuro.
Noi invece, facilitiamo l’introduzione di specie infestanti, ad alto consumo
idrico, che sotto il sole estivo bruceranno come cerini. Alla fine ci
resteranno solo terreni sterili. Basterebbe una legge di pochi articoli per
impedirlo. In Sardegna è possibile coltivare solo specie destinate
all’alimentazione umana ed animale o per attività tradizionali artigiane ed
industriali. Nessun privato può detenere terreni agricoli con una superficie
superiore ai mille ettari. La riforma agraria degli anni 50, aveva espropriato
chi eccedeva quella quota. Costituzione di un Monte terre che acquisti
dai privati e poi rivenda a prezzi agevolati ai giovani agricoltori.
L’acquisto di terreni agricoli eccedenti una dimensione da stabilire, è
permesso solo a chi è residente nell’isola da almeno cinque anni. I politici
pensano alle elezioni, gli statisti alle nuove generazioni, diceva De Gasperi.
Messaggio sempre valido.
(la foto è di Fiorella Sanna) Etichette: agricoltura, editto delle chiudende, francesca madrigali, la terra, La Versione di Madry, matrica, nicolò migheli, pastori, pastorizia, radio X, rurale, stefano lai