Sono preoccupata. Nel giro di tre giorni tre
persone diverse, a me molto care, mi hanno espresso un sentimento simile di
scoramento, di muta rassegnazione in un caso, di rabbiosa ingiustizia in un
altro. Il comune denominatore di queste tre persone è l’assenza di una visione
del futuro.
No future, come urlavano i punk: ma in quel caso
era forse più la rabbia giovane, il nichilismo con un perché storico,
culturale, in qualche modo creativo.
Oggi non sono giovani le persone che mi hanno detto
“Non ho un progetto, non ho più voglia, non vedo un futuro”. E poi quella
considerazione terribile: “non mi sarei mai immaginat* questa situazione, di
essere mess* così male”. Qui c’è tutto lo shock delle aspettative tradite, dei
treni persi perché si era nel posto sbagliato al momento sbagliato, o perché il
momento giusto non è mai arrivato.
Sono tutte persone che lavorano, tutte laureate;
sono tutti precari ultraquarantenni. Precari, non flessibili. Si dice
esattamente così: precari, se le parole hanno ancora una qualche importanza.
Hanno conosciuto sempre e soltanto questa
situazione, mai avuto il problema di annoiarsi o di far “cadere la penna” alle
cinque del pomeriggio.
La mia preoccupazione non riguarda però la loro
situazione lavorativa, seppure io la trovi profondamente ingiusta soprattutto a
fronte di quelli che pontificano sul “posto fisso”…dal loro comodo posto fisso;
sono rimasta sgomenta da quella tentazione di arrendersi, da quell’ingiustizia
percepita come non più superabile, ignorabile, affrontabile. Uno mi ha
raccontato del suo fare l’imprenditore nonostante tutto; l’altra dell’angoscia
di non poter offrire ai figli le opportunità che ha avuto lei. Un’altra ancora
della precarietà eterne in un sistema immobile che non mostra mutamento alcuno.
Tutti stanchi, tutti sgomenti dalla comprensione
maturata poco a poco o viceversa arrivata come un coltello nella schiena del
fatto che effettivamente noi non abbiamo più un futuro prevedibile, tantomeno
pianificabile. E il fatto è che noi amiamo prevedere, immaginare, sognare. Amiamo progettare.
Se però les jeux sont faites, il banco ha già vinto tutto, alla
nostra generazione è rimasta solo la possibilità di bluffare oppure, se non si
è nati giocatori, di lasciare il tavolo da gioco prima che sia troppo tardi.
Che nel concreto significa adattarsi, forse
rassegnarsi; o semplicemente, penso io nelle serate buone, rinunciare all’idea
che si possa vivere “come prima”. E non comprarsi agendine per il nuovo anno,
chè tanto non possiamo vedere oltre i due-tre mesi.
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