Una due giorni tra Milano e Roma è
sufficiente per percepire quanto il “Belpaese” sia davvero finito al vertice di
quella che Alan Krueger, capo degli esperti economici di Obama, ha definito
"la curva del Grande Gatsby": un tracciato del rapporto tra
disuguaglianza e mobilità sociale intergenerazionale in diversi Paesi del
mondo.
Ormai
l’Italia si trova, infatti, tra i Paesi
che hanno maggiori diseguaglianze nei redditi. E, contemporaneamente, fra
quelli dove c'è la minore mobilità sociale tra una generazione e l'altra.
All'estremo opposto si trovano i paesi scandinavi.
Nel grafico, elaborato utilizzando i dati dell’economista
canadese Miles Corak, l'asse orizzontale indica la diseguaglianza tra i
redditi, quello verticale la mobilità di reddito tra generazioni: in sostanza,
il rapporto che c'è tra gli stipendi dei padri e quelli dei figli. Andando dal
basso verso l'alto, aumenta l'immobilità. Andando da sinistra a destra, cresce
la diseguaglianza.
Il nome della curva fa riferimento, un po
'ironicamente, a Jay Gatsby, il personaggio di F. Scott Fitzgerald del romanzo
“Il grande Gatsby”. Jay mostra un alto grado di mobilità, passando da essere un
contrabbandiere sino a diventare un imprenditore di successo. Una realtà ben
lontana da quella odierna di paesi come Usa, Gran Bretagna e, per l’appunto,
l’Italia dove almeno metà dei propri vantaggi economici deriva dal fattore
famiglia.
In questo quadro il buonsenso richiederebbe di correre
ai ripari, investendo in quelle politiche e strategie di indirizzo della spesa
pubblica che aiutino a riequilibrare il peso tra i figli, per esempio
investendo in istruzione, promozione della conoscenza e sviluppo del capitale
umano. Tuttavia non sembra essere questa, al momento, una priorità, né in
Italia, né in Sardegna.
Proprio nell’isola, dopo quasi un decennio
caratterizzato da ingenti investimenti in politiche sul capitale umano, si è
passati, in pochissimo tempo, a una quasi totale assenza di finanziamenti su
questo tipo di politiche. In questo scenario il caso del Master&Back, il
programma di punta dell’alta formazione “Made in RAS”, è paradigmatico.
Tra il 2008 e il 2014 la Regione Autonoma della
Sardegna ha investito quasi 120 milioni di euro distribuiti in oltre
quattromila progetti rivolti ad altrettanti studenti sardi per garantire
un’alta formazione e, in molti casi, un futuro migliore di quello che avrebbe
potuto offrire il panorama sardo. Oggi quella stagione sembra essersi definitivamente
conclusa dato che, leggendo l’allegato tecnico al bilancio di previsione
2014-2016, si osserva come, per gli anni 2015 e 2016, le risorse finanziarie
programmate per il Master&Back siano pari a zero.
Sebbene la parte “Back”, quella dei cosiddetti
“percorsi di rientro”, fosse solo una delle due parti del programma, è comunque
vero che buona parte delle migliaia di beneficiari, spesso in possesso di qualifiche
di alto livello, non sono poi rientrati. Tutto il loro potenziale, in termini
di capitale umano, che oggi potrebbe essere invece attivato se si cercassero delle
modalità per mettere in contatto queste competenze con le realtà economiche e
imprenditoriali sarde, rimane invece latente e inespresso.
Tuttavia, il non rientro dei borsisti Master&Back
è solo la punta dell’iceberg di quello che da almeno dieci anni è un vero e
proprio stillicidio che sta privando l’Isola delle sue energie più dinamiche.
Nel corso del solo 2013, secondo i dati dell’ultimo rapporto sull’emigrazione
delle Acli Sardegna, ben 6.500 sardi sono emigrati, di questi 2.254 si sono
trasferiti all’estero. Sono andate via, in media, diciotto persone al giorno
per un intero anno.
Il tema però non viene preso seriamente dalla
nostra classe dirigente. Mentre la disoccupazione giovanile e dei meno giovani
si fa sempre più forte, e spinge verso l’emigrazione fasce sempre più ampie
della popolazione e sempre più in possesso di alti livelli di istruzione e
qualifiche, in Sardegna o non se ne parla o, tutt’al più, ci si limita a
parlarne in termini molto edulcorati.
Ormai si è quasi
riluttanti ad usare termini come emigrazione, si ammorbidisce il discorso e si
parla di “spostamenti”, forse perché la prima è una definizione troppo diretta
e preoccupante. Si preferisce vedere positivamente i tanti trolley che hanno
preso il posto di quelle che una volta erano le valigie di cartone. Del resto,
per quelli che restano una sistemazione si troverà, mentre, per quelli che
partono, ci saranno comunque una mare di opportunità da cogliere. Ma non qui,
oltre il mare.
In questo modo gli effetti di questo processo
non tardano a manifestarsi. Spopolamento, emigrazione, invecchiamento della
popolazione e bassa natalità sono sotto gli occhi di tutti e concorrono ad
alimentare il perdurare di una situazione di stasi e di stallo che ormai
riguarda ogni aspetto della società, incluso quello della dimensione politica.
Nel momento in cui le opportunità sono sempre
meno, rischia di diventare impossibile mitigare gli effetti, sulla selezione
della classe dirigente, del cosiddetto principio di Peter. Si tratta di una
tesi, apparentemente paradossale, nota anche come principio di incompetenza e
formulata nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence J. Peter e che può essere
concisamente formulata come segue: « in una gerarchia, ogni soggetto tende a
salire di grado fino al proprio livello di incompetenza ».
Il principio di Peter va inteso nel senso
che, in una gerarchia, i membri che dimostrano doti e capacità nella posizione
in cui sono collocati vengono promossi ad altre posizioni. Questa dinamica li
porta a raggiungere, di volta in volta, nuove posizioni, in un processo che si
arresta solo quando accedono a una posizione poco congeniale, per la quale non
dimostrano di possedere le necessarie capacità: tale posizione è ciò che l’
autore intende per «livello di incompetenza», raggiunto il quale la carriera
del soggetto si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni
ulteriore spinta per una nuova promozione.
Sebbene il principio di Peter, formulato
nell’ambito degli studi della psicologia delle organizzazioni, si applichi
soprattutto alle dinamiche delle strutture organizzative di tipo gerarchico, è
anche vero che queste stesse dinamiche possono finire con il caratterizzare
un’intera regione. Soprattutto quando, come nel caso della Sardegna, l’intero
sistema economico e sociale è privato dell’energia e delle competenze delle
fasce più dinamiche della sua popolazione.
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