Si
scalda (forse) il dibattito sugli intellettuali in Sardegna.
Non mi
soffermo a dire che intellettuali siamo un po’ tutti, dallo scrittore
all’artigiano, dal professore all’informatico.
Dicono
che a dirigere l’Isola adesso ci sarebbero gli intellettuali. Perchè? Sono
professori. Basta questo?
L’utopia
di Platone, che siano i filosofi a dirigere lo Stato, ammesso e non concesso
che sia una soluzione, stride al massimo dell’ironia quando vedi che a
governare lo Stato ci sono i Renzi, ma il guaio vero è quando a governare un
popolo in cerca della sua sovranità ci sono i renziani.
Noi che
seguiamo le orme di Gramsci nel cercare di definire chi è, che cosa fa,
l’intellettuale, e ne diamo una identità diffusa, nel produrre economico,
culturale, politico, dobbiamo pure chiederci se in Sardegna questo “fare”
intellettuale esista o no.
Nella
politica, mentre ci scaldiamo al pensiero della Scozia e della Catalogna,
stiamo immobili in attesa che lo Stato Italiano ci dica esso in che consiste la
nostra autonomia, la nostra sovranità, la nostra indipendenza e, mentre passa
inutile il tempo della nostra liberazione, avvertiamo che queste belle idealità
si avvicinano allo zero assoluto.
In
economia altri poteri esterni, assai poco intellettuali, e invece militari, statali,
esotici miliardari e quant’altro, decidono essi la sparizione dell’agricoltura,
il deserto, il controllo dell’ambiente e della salute.
E la
produzione culturale?
Se è
vero in generale che siamo avviati ad essere, in tutti i campi, piuttosto
consumatori che non produttori, questo è drammaticamente evidente riguardo al
produrre cultura.
Formazione,
scuola, teatro, cinema, editoria, sono bloccati al consumo di produzioni
esterne, alla semplice diffusione del pensiero altrove pensato, la maggior
parte dei nostri operatori in questi campi sono convogliati e invogliati a
formare, insegnare, inscenare, fotografare, editare, storie che riguardano
vicende, tradizioni, cultura, linguaggi, di altri popoli. L’Università sarda
non ha che esili rapporti con la Sardegna, potrebbe abitare altrove.
Qualche
pattuglia impegnata, da “intellettuali organici”, a produrre oggetti propri
della cultura sarda (dalla lingua alla storia, dalla tradizione ai problemi di
oggi), che non abita in torri d’avorio (chiamiamolo avorio...) ma è scesa in
strada, vive uno stato di dipendenza economica, di isolamento politico, di
sospetto culturale.
Prendiamo
anche solo il teatro. Inglesi, spagnoli, francesi, napoletani, veneziani,
genovesi, lombardi, romani, e aggiungete tutti i popoli e nazioni che volete,
hanno il loro teatro nazionale. Anche i sardi lo avrebbero, però...
Però è
considerato di serie B.
C’è un politico, un partito, un settore di maggioranza
o di minoranza che si sia posto il problema di dare impulso all’affermazione di
un teatro del popolo sardo? L’accoglienza
che si fa al teatro “italiano”, spesso traduzione di altri teatri nazionali, è
assolutamente di privilegio rispetto al teatro sardo, che sia traduzione o
prodotto originale. Se il teatro in generale, in Italia e in Sardegna, versa in
tristi condizioni, la situazione di chi vuol fare teatro sardo è addirittura di
agonia: teatri chiusi, compagnie sciolte, riduzione a rappresentazioni senza
scenografie, senza ausilio tecnico, monologhi e reading in locali “alternativi”
(per forza) o per la strada.
Continuiamo
così, facciamoci del male.
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