Qualche settimana fa ha destato
scalpore l’iniziativa “Adesso parto”, del Comune di Elmas, finalizzato a
sostenere le prime fasi dell’espatrio della nuova emigrazione. Circa dieci anni
fa la Regione Sardegna lanciava il programma Master&Back, poi ripreso da
altre regioni italiane. Nel mezzo le storie di migliaia di sardi e di sarde che
lasciano l’Isola, talvolta per scelta più spesso per necessità di trovare
un’occupazione.
Il recente festival Mitzas sorgenti
di cambiamento è stato l’occasione per provare a immaginare una Sardegna che
verrà e che in parte già esiste. In questo scenario è stato presentato il
progetto Inveritas che, unendo antropologia visuale e management, punta a
creare valore, per le imprese e le comunità, partendo dai valori. Nel voler
raccontare un percorso di rientro esterno ai programmi pubblici regionali o
locali vi proponiamo questa intervista con l’antropologo Marcello Carlotti.
Marcello, la tua storia è
rappresentativa di quella di tantissimi altri conterranei che hanno scoperto e
vissuto l’estero come opportunità, andando a studiare e lavorare in Europa e
nel Mondo. Quanto, secondo te, il percorso di ritorno che hai intrapreso può
oggi essere considerato rappresentativo di tanti altri percorsi simili e dov’è
la sfida?
Andare a studiare fuori è
fondamentale per allargare i propri orizzonti. Le piante che cosa fanno? Hanno
le radici confitte nel suolo, vivono così. Ma allo stesso tempo, almeno gli
alberi di una certa importanza, devono tirare su un bel tronco e cominciare ad
aprire i rami e abbracciare più sole che possono. Il periodo di studio
all’estero non è un ri-radicamento e non deve essere visto neppure come uno
sradicamento. Deve essere considerato come l’apertura dei rami, della chioma.
Servono le radici ma servono anche le foglie per fare vivere l’albero. Quindi è
fondamentale fare sì che intercettino più sole e vento, più stimoli. Però, per
quanto lontano poi possa estendere i rami, è importante sapere in che terreno
hanno avuto origine le radici di quel tronco. Quando vai all’estero, è come se
ti spacchettassi, i rami si stendono belli lunghi, e senti proprio un senso di
distensione della colonna vertebrale, delle braccia, delle ossa, senti
scricchiolare, vanno in tensione. L’unica cosa che devi fare - almeno per chi
ha la fortuna di entrare dove si cercano qualità e professionalità, meno per
chi va a fare dei mestieri che sono a volte gli stessi che qui magari avrebbero
rifiutato - è spacchettarti. Per cui tu spacchetti qualità e scopri che puoi
dare e cominci a costruirti un’autostima.
Quando torni in Sardegna è come se
tu sentissi che qualcuno, come una forza, cercasse di rimetterti dentro il
pacchetto, nella scatola originale. Il problema è che, se vogliamo usare una
metafora abusata, il dentifricio lo puoi fare uscire, poi però è difficile
rimetterlo dentro il tubetto. E allora, ed è questa la sfida, credo che si
tratti di non farsi rimettere dentro il tubetto e di poter fare quello che è la
tua inerzia, il tuo potenziale e il tuo talento. O forse è tutti questi tre
elementi insieme.
Nell’arco della tua vita hai seguito
un percorso che ti ha portato a coniugare antropologia e documentarismo. Come
si scopre di voler diventare antropologo-documentarista?
Direi che si scopre il bisogno di
dover mettere assieme varie passioni con varie necessità espressive.
Normalmente l’antropologia si è sviluppata ed è cresciuta attraverso il sistema
testuale che, nella vulgata, era muoversi in territori lontani, portarsi magari
dietro un registratore, una macchina fotografica, scattare qualche foto, ma
soprattutto dedicarsi a raccogliere delle impressioni. Poi, come per tutto, c’è
stata un’evoluzione di natura tecnica e tecnologica. Con il digitale i costi
sono implosi e fare antropologia visuale è diventato molto più semplice.
Ovviamente riuscire a montare
direttamente, attraverso dei programmi, quelle interpretazioni delle persone
sul loro mondo, magari stimolate già dalla tua sola presenza o dalla presenza
che si unisce alla curiosità e alla domanda, e trasformarli in protagonisti del
loro mondo è già di per sé straordinario. Se aggiungiamo il poter poi lavorare
a casa, non tanto su appunti scritti ma addirittura sulle immagini, e vedere la
sorpresa delle persone che si rivedono e che quindi hanno uno strumento in più
per la costruzione del loro sé autobiografico e culturale, e anche del loro sé
stessi come auto-opinion leader, secondo me non vi è dubbio che questo sia un
mezzo molto più efficace e molto più interessante dell’uso della sola penna.
Questa tensione continua si è
sposata con il Progetto Inveritas che si articola proprio intorno al documentario
antropologico e ai principi della verità, della sincerità e dell’autenticità.
Qual è la relazione tra il documentario antropologico e questo progetto?
Innanzitutto c’è la tensione etica
perché tutto sommato, nonostante l’esperienza accademica abbia fatto di tutto
per scoraggiarmi, sono sempre più convinto che, per quanto in Italia non esista
la professione di antropologo, l’antropologia sia utile. Permette, infatti, di
mettere in crisi dei luoghi comuni, delle visioni del mondo che sono diventate
una nostra sottopelle, e ci permette di fare critica culturale e di renderci
conto dell’arbitrarietà o, come diceva Wittgenstein, che dietro ogni cosa ovvia
c’è sempre qualcosa di interessante da de-costruire.
Dall’altra parte c’è l’amore verso
la terra nativa, che è un’isola tanto bella quanto disperata. Allora, quello
che io mi son posto, sia da accademico e quindi da antropologo, sia da
individuo, era il problema di darmi una connotazione con un progetto che si
potesse tradurre in un prodotto appetibile e credibile che è quello poi nato
dall’ibridazione dell’antropologia visuale con il management.
Uno dei primi documentari del Progetto Inveritas ha riguardato Serramanna,
paese dove hai vissuto sino all’età di diciotto anni e che hai poi lasciato per
seguire un tuo percorso accademico e professionale. Che emozioni hai provato
quando ti sei ritrovato a filmare luoghi e vite già conosciute in passato e
cosa ti ha spinto a farlo?
Ho provato la stessa amara tristezza
che mi ha portato poi ad andarmene e un grande dispiacere nel vedere un paese
che in fondo è una metafora della Sardegna, dell’Italia e del mondo
Occidentale: si poteva avere con poco tutto e invece si è finito, per avere un
troppo non definito, di perdere anche il poco che si aveva. Quando si arriva a
Serramanna dalla SS131 il primo elemento imponente che si vede da lontano è il
fungo, ovvero il deposito dell’acqua. Pochi secondi dopo, si stagliano tre cose
all’orizzonte: il campanile, il secondo fungo e, soprattutto, un’imponente
cantina che è lì, ferma. E tuttora, anche se chiusa da oltre circa venticinque
anni, è la più grande cantina sociale d’Italia. Chiusa. E io credo che questa
immagine dica tutto.
E allora più che emozione è stata
una tensione etica che mi ha spinto a fare quel documentario. Ho trovato un
partner che ha creduto nel progetto e l’ha voluto sostenere e ci siamo dati un
obiettivo: quello di creare uno stimolo, un pungolo per risvegliare non
l’orgoglio, ma la dignità. Anche perché oggi a Serramanna, nonostante tutto, ci
sono delle realtà interessanti che sono leader nei loro settori e che vengono
guardate con un occhio di interesse, se non addirittura di ammirazione, a
livello regionale, nazionale o, addirittura, internazionale.
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