Fa freddino. Fa sempre freddo in questa parte del
mondo, l’estate è un’idea, un ricordo lontano degli anni passati, di quando si
era piccoli e in fondo non ci importava nulla del caldo, del freddo, nemmeno
delle stagioni. Vivevamo e basta.
Comunque fa freddo, anche se è luglio, ed è
fastidioso quando devi andare a un matrimonio. Le calze sono da escludere,
ovviamente, perché è luglio, perlomeno sul calendario, e le calze sono proibite
dalla mia religione climatica e soprattutto umorale.
Sono tornata in questa parte del mondo, anche se
è piena di ricordi appuntiti e fin troppo interessanti, perché due persone a me
care si sposano. Sono i miei amici, un pezzo della mia vita, e un po’ di
famiglia quando sono in giro, quando lascio la mia casa solita, quando le mie
camicette a fiori mi sembrano improvvisamente inutili nella mia stanza in
affitto, da qualche parte.
La faccia di lui non mi appare più come prima, è
vero, così come è vero che il tempo guarisce tutte le ferite anche se non
vogliamo. Se poi quella faccia, quel corpo, e soprattutto quel “dentro”-
qualcuno la chiama anima, altri cervello, altri ancora il cuore- sono lontani
migliaia di chilometri, su un altro continente, tanto meglio.
E’ luglio, un anno è passato, fa freddo ma non mi
sento fredda. Ho voglia di stare bene stasera, di festeggiare, di abbracciare
gli amici che non vedo da tempo. Ecco
perché in chiesa ho pianto tutto il tempo sulle note dell’Hallelujah di Cohen,
cantata dagli amici dello sposo. Oh, che poi ai matrimoni si deve piangere, no?
Però il cantante è carino, con una barba folta e uno strano cappello in testa,
a tesa un po’ larga. Piuttosto informale per un matrimonio, direi.
Ora che
siamo al ricevimento e ho fatto l’errore di chiedere alla mia amica chi è, la
voce si è sparsa rapidamente nella famiglia e uno dopo l’altro vengono a
chiedere a me, che fino a qualche
settimana indossavo la maschera della tristezza più bella, se voglio
conoscerlo, se voglio che me lo portino qui.
Dico di sì- forse ho bevuto troppo, eh, ma
d’altronde anche questo è tipico dei matrimoni. Me lo portano, nel momento
esatto in cui sto cercando di far affluire il sangue ai miei piedi gelati.
Quanto maledetto freddo fa in questo Paese, in luglio!
E’ alto, magrolino. La barba mi piace, mi è
sempre piaciuta, e mi ha sempre portato guai, però mi fido di uno che sa
cantare l’ Hallelujah senza ucciderla, dignitosamente insomma. Quindi mi faccio
coraggio e gli chiedo come si chiama, anche se ovviamente lo so già e so anche
che è single, libero. Non mi sembra di scorgere residui di tristezza su questa
bella faccia mentre mi dice il suo nome.
Subito dopo si tocca lievemente la
tesa del cappello e mi domanda, alla maniera argentina: “…Y vos?”
Glielo dico, rasserenata. Lui mi intervista:
“Cosa vorresti fare da grande?”, “che tipo di uomo ti piace?”, esattamente quel
tipo di domanda che mi porta sempre su un crinale pericoloso, la ragnatela perfetta
per una come me. La seduzione è fatta di parole, ecco il mio problema.
Gli altri ci guardano da lontano, sposi compresi:
quella domanda e quel tocco del cappello mi hanno ipnotizzata e sono già
abbastanza certa che il vino non c’entri nulla. Negli altri tavoli vedo girare
dei cartelli, e la mia amica me ne mette in mano uno: sopra c’è scritto “Stai zitto e baciami”.
Glielo mostro, sorridendo: mi arrendo a questa
strana serata. E lui, allora, fa qualcosa di assolutamente imprevisto.
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