Conversazione di un
pomeriggio qualunque. La mia interlocutrice è nata nei primi anni Ottanta,
laureata e masterizzata, precaria ormai ex, con all’attivo diversi lavori di vario
genere. Guardiamo i miei bambini giocare, ricordiamo la nostra infanzia,
realizziamo con sgomento che i miei figli faranno un terzo, se va bene, di
quello che abbiamo potuto fare noi, entrambe figlie di una classe media con due
stipendi a famiglia.
Parlo di libri, di studi, di viaggi, anche. Parlo di
sport, non di vestiti firmati o case gigantesche. Non mi riferisco al motorino,
ma alla possibilità che avevo di comprare riviste e libri in quantità. Parlo
del Teatro dei Piccoli, per dire, delle occasioni culturali che stimolano i
bambini e gli adolescenti. Ma i bambini, in fondo, non hanno mica bisogno di…di
cosa?
Cosa è superfluo e cosa necessario nelle cose che ho elencato?
La mia generazione, se ha
figli (e sottolineo se), questi
problemi se li deve porre. Cosa si può permettere e cosa no in un momento
storico, che dura ormai da più di un decennio, in cui come canta Caparezza “era meglio la Roma dei re di un futuro a
bubusettete”, dove l’incertezza regna sovrana?
A parte qualche caso, noi la
sobrietà la pratichiamo di default, ed è un bene. Perché i fratelli maggiori,
gli ultimi ad avere una sufficiente certezza di causa-effetto tra investimento
di vita (ad esempio gli studi o l’attività di famiglia), si sono spazzolati via
tutto, e noi abbiamo commesso errori imperdonabili (fra i quali, ne abbiamo
parlato spesso, la scelta del corso di studi sbagliato, il non essere
abbastanza “affamati” ma rassegnati all’Accozzolandia, e soprattutto il non
pensare per tempo a un piano B).
Oggi le scelte politiche che ci riguardano sono inesistenti, nonostante
la precarietà e la disoccupazione, in Italia, siano un fenomeno adulto. Non si
può pensare, infatti, che siamo tutti fighissimi emulatori di Steve
Jobs, brillanti startupper, coraggiosi imprenditori di noi stessi. Né, se per
questo, tutti agricoltori biologici o produttori di artigianato tipico da
migliaia di euro al pezzo.
Nel 2013 abbiamo toccato il picco più alto mai raggiunto dalla disoccupazione in
Italia: 3.113.000 disoccupati. Di questi, i giovani sono 655.000, cioè il 21%.
(gli ultimi dati Istat, di qualche giorno fa, in realtà, riportano dati
leggermente più alti, perché più aggiornati).
In Sardegna, negli anni '85-'86, i giovani disoccupati erano 72.000 e
costituivano il 58% della disoccupazione complessiva (123.000 disoccupati). Nel
2013, i giovani in cerca di lavoro sono circa 26.000, poco più del 21% della
disoccupazione totale.
Io non credo che un ministro o un assessore, o i loro collaboratori, non
sappiano leggere un dato statistico che ci dice che il 79% dei disoccupati
ha più di 29 anni.
Devo supporre che allora ritengano la disoccupazione giovanile, come ho
letto in una intervista, “l’emergenza”, o addirittura una “piaga sociale”, e si
organizzino di conseguenza. Si chiamano “scelte politiche” e come tali vanno
valutate.
Intanto, nel nostro Sulcis, le famiglie (con disoccupati che
evidentemente hanno superato la trentina) cominciano a ritirare i figli da
scuola, perché semplicemente anche studiare è diventato un lusso.
Il messaggio è duplice: non posso studiare e comunque non servirebbe,
visto come è andata ai miei fratelli maggiori. I quali, ci informa oggi unostudio, se hanno avuto la sfiga di nascere negli anni Settanta guadagnano molto
meno degli altri, se sono laureati poi è peggio (il salario di ingresso per i nati dal 1975 al 1979 è calato del 20% se
paragonato ai primi stipendi dei nati un decennio prima. I diplomati invece
hanno resistito: -5%.). In Sardegna, intanto, la dispersione scolastica è al
27%, la più alta d’Italia.
Il
dramma della disoccupazione adulta è che coinvolge più generazioni: quella dei nostri genitori, messi di fronte alla necessità di mantenere
figli ormai adulti, i quarantenni e i loro eventuali figli adolescenti che per
la prima volta vedono interrompersi “l’ascensore sociale” e sperimentano in
maniera massiva (non più occasionale cioè, e non più legata a particolari
professioni) la disoccupazione dei loro genitori (e ripenso a quella sensibile
insegnante che mi raccontò in radio della paura del futuro dei ragazzi, una
paura non più solo esistenziale, ma legata ai fattori economici).
La
notizia è che però, almeno in Sardegna, alcuni intellettuali cominciano ad
accorgersi dell’esistenza dei disoccupati quarantenni: non so se ridere o
piangere. Forse nessuna delle due, và.
Sarà
importante, se vorremo andare in giro a spiegare quello che i media (nazionali
e regionali) non dicono, è sottolineare che non è una questione di antagonismo
politico ma di cifre, terribili numeri. E che non c’è e non ci può essere una
“guerra tra poveri”, nel senso che evidenziare la situazione terribile della
disoccupazione adulta italiana e sarda non esclude l’avere a cuore il futuro
dei giovani, semmai il contrario.
Dobbiamo preoccuparci, e far capire a tutti
oltre l’indifferenza della politica e dei media, che è essenziale migliorare la
condizione reddituale ed esistenziale delle famiglie oggi, per poter avere un
domani per tutti.
Eppure lui ci credeva: Puntiamo
a dare un colpo duro alla piaga della disoccupazione giovanile"!
Non
sarà mica che le imprese, nonostante alcuni tentativi disperati e in ottima
fede di diversi amici di convincermi che sono loro “che creano lavoro”,
semplicemente non vogliono assumere, manco se togli loro tutti i carichi
fiscali di questo mondo?
Dobbiamo
organizzarci, in qualche modo: perché il malumore, la rassegnazione, la morte
per consunzione, parafrasando Caparezza, “non ce le possiamo permettere”.
Intanto
segnatevi questa parolina magica, che presto sentiremo tornare alla ribalta:
“LE ECCELLENZE”. Poi non dite che non ve l’avevo detto.
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