I suoi cavalli di
battaglia sono, di solito, donne e migranti, ma anche disabili e in generale
tutte le situazioni in cui si presta attenzione a qualcosa o qualcuno.
Lui/lei
interviene per spiegarci, di solito non bonariamente ma con la spocchia
dell’intellettuale “alfa” (o analfa, scegliete voi), che queste sono cazzate, e
la sostanza è ben altra.
No, non sono i paladini del “benealtrismo”, anche se
ci somigliano, ma gli esponenti di quello che Michele Serra in un vecchio
articolo su Vanity Fair chiama “l’orrido pregiudizio dell’Italia ‘cattivista’”,
argomentando anche che l’atteggiamento “smagato”, da gente di mondo, “ha radici
profonde, intellettuali e popolari”.
Più pseudo intellettuali, mi sembra: è
tipico infatti di un certo “cinismo chic” disvelare l’enorme imbroglio del
mostro che domina il mondo: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
Cioè, per come la vedo
io, il prestare attenzione agli altri (e quindi a se stessi, chissà che non ci
scappi la possibilità di migliorarsi). Attraverso gli atteggiamenti, le regole
di comportamento, perfino il linguaggio. Non perché siamo Gandhi, beninteso, ma
semplicemente perché tutt* meritiamo lo stesso rispetto (ah, se già avete le
convulsioni per l’uso dell’asterisco vi sconsiglio di proseguire nella
lettura).
E’ proprio così: è orrido l’atteggiamento di chi sbertuccia la bontà (non
il buonismo che ne è la versione grottesca, facilmente individuabile già sul
medio periodo), di quelli che si preoccupano di non essere MAI politicamente
corretti (ma che cazzo vuol dire?), perché è sinonimo di ipocrisia, mentre
loro, loro sì che sanno come va il mondo.
Gli orridi “cattivisti” non sono eccezionali – perché il mondo ne è appunto
infestato- né affascinanti, chè i cattivi veri sono ben altra cosa, anche
letterariamente parlando.
Li riconoscerete facilmente: sono quelli che si
innervosiscono ogni volta che salta fuori una causa, qualsiasi causa. Dai diritti degli omosessuali alla parità di
genere, passando per un linguaggio più etico e corretto e arrivando ai
migranti, costoro hanno qualcosa in contrario, non con la causa in sé,
beninteso (sicuri sicuri?), ma con la “mania” di essere corretti, in definitiva
di appassionarsi a un tema.
Perché la gente “di mondo”, vedete, sa già tutto, è già “oltre”, mentre noi
ingenuotti ci ostiniamo a fare i “buonisti”. Non viene nemmeno presa in
considerazione l’ipotesi che noi, a cui il tema sembra importante, non vogliamo
in realtà sembrare buoni, e nemmeno esserlo. Figuriamoci buonisti. Non viene
proprio considerato, dai ciniconi trendy, il fatto che ancora noi vogliamo credere in qualcosa e perfino adoperarci
in qualche modo.
Questi illuminati, che non si fanno fregare dalle banalità dei problemi del
mondo, sono quelli che si scandalizzano per il termine femminicidio (perché
“uccidono anche gli uomini, e in misura maggiore eh!”), per le quote rosa
(“perché non è che adesso avere la figa è una dote in più” – come no?, NdR, è una vita che mi dite che un
suo pelino tira più di un carro di buoi…ah, no, quello era solo per quando vi
fa comodo allora!), che minimizzano i lanci di banane ai calciatori o ai
ministri di colore, che il bullismo è sempre esistito, che le ragazzine oggi
sono tutte troiette, mica come prima, signora mia.
E va bene, per carità, siamo pur
sempre in una democrazia imperfetta. Ma se le obiezioni “cattiviste”, ma con
spirito sempre salace così da assicurarsi il paracadute di una presunta ironia,
sono legittime e pure salutari per l’allenamento mentale di tutti, è il tono
quello che li contraddistingue e che non mi convince: che è di scherno profondo
per voi, interlocutori ingenui che state dietro a queste sciocchezze, come ad
esempio cercare di non utilizzare un linguaggio inappropriato oppure offensivo
in segno di rispetto per gli altri.
Il giornalista Gianluca Nicoletti, padre di un
ragazzo autistico, si è incazzato di brutto, e ha ragione. Ha un milione di
volte ragione. Perché un utilizzo superficiale e cattivo delle parole non me lo
aspetto di certo da chi le parole dovrebbe saperle utilizzare.
E, no: io non do
dell’autistico a nessuno, così come non utilizzo le seguenti parole: mongolo, burricca, cicciobomba, mandingo ecc. Sono meccanismi mentali spesso
incontrollati, per cui gli insulti (perché di questo si tratta) ci escono di
bocca automaticamente, senza correlazione diretta con l’oggetto del nostro
disappunto
(** momento didascalico:
quella ragazza discinta non è una “facile”, ma noi la stiamo definendo così
utilizzando la parola “burricca”, e delle dimensioni dell’organo sessuale di
quel ragazzo non sappiamo nulla, immagino, a parte la solita invidia latente
che suscitano quelli di colore, o se preferite ‘negri’, alla Carducci **)
E’ una questione di lana caprina? E’ poco importante, perché così fan tutti
i ridicoli “buonisti”?
Intanto vi segnalo il progetto fotografico Weapon of choice (http://hurtwords.com/ ) che mi ha molto colpita per la potenza
dell’idea: le parole come cicatrici, come marchi sul volto delle persone.Perchè le parole- espressione sonora di atteggiamenti più complessi- hanno delle conseguenze. Individuali e collettive.
Io corro volentieri il rischio di essere sbertucciata dai campioni dell’autocompiacimento
cattivista, e probabilmente sto invecchiando male se non ho ancora visto la
luce della vera sapienza. Pazienza.
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