Camminare,
è noto, favorisce non soltanto la tonificazione muscolare e la ripresa di quel
famoso interno coscia che tende a
scappare verso il basso, ma anche l’elasticità mentale. E così capita che mentre
cammino penso, anche.
Deve essere una mia latente tendenza autolesionista: mai che
sia una attività fisica che mi impedisca di farlo, anche solo mezzoretta al
giorno basterebbe per riposarmi! E invece no.
Proprio
stamattina camminavo in mezzo agli alberi del mio solito parco, in questa città
meravigliosa che mi lascia ogni giorno esterrefatta per la sua grazia, la sua
bellezza serena e la luce abbagliante.
Pensavo
alla libertà, questa cosa pericolosa. Perché sentirsi liberi e dunque spontanei
porta con sé, qualche volta, anche la solitudine. Il sentirsi parte di una
minoranza, che con l’estremismo radicale della giovinezza può essere vissuto
bene, con orgoglio, ma poi diventa un fardello pesante da portare.
Quando
siamo giovani, mi sembra di ricordare vagamente (non è solo l’interno coscia
che invecchia, eh!), una delle strade può essere quella della differenziazione
degli altri. Se la nostra autostima è buona, allora stiamo bene anche da soli,
forse certe scelte verso cui la nostra anima ci porta non sembrano così difficili.
In un
mondo fatto di “cerchi magici”, di compartimenti stagni che difficilmente ci
accolgono se non garantiamo – e mostriamo-
fedeltà e condivisione fideistica, la libertà di essere come siamo non è gratis,
e questo lo capiamo lentamente. Il bello e l’orrendo è che quando lo capiamo,
ormai adulti, non ci possiamo fare nulla, e soprattutto non vogliamo farci nulla.
A
vent’anni eravamo orgogliosi e avventati, perché il futuro era ancora una terra
straniera e come tale piena di possibilità.
A trenta,
salvo ingressi volontari e naturali o frutto di un duro lavoro di adattamento
in qualche cerchio magico che ci identificasse anche attraverso una
appartenenza, abbiamo capito che c’era un prezzo da pagare.
Talvolta
quello di essere esclusi, magari molto apprezzati, come si guarda un oggetto
misterioso che però si ha paura di avvicinare troppo. Talvolta hanno cercato di
convincerci che eravamo troppo “difficili”, complicati, magari ruvidi.
Troppo
talebani, trancianti, o al contrario diplomatici e incapaci di schierarci.
Tutte
scuse: semplicemente, come in amore, la verità è che “non gli piacevamo abbastanza”. La verità è
che qualche volta essere come siamo è una cosa pericolosa, non conveniente.
Non
eravamo adatti, e oggi lo vedo con più chiarezza di ieri. Non è merito soltanto
della camminata, ma di tanti elementi (non ultimo l’insolito buonumore di
questi giorni): il potersi esprimere liberamente perché non si è parte di alcun
cerchio magico, un invincibile senso di impertinenza che per fortuna non mi
abbandona mai. Sarà perché mi amo? Boh.
Mi sarò
rassegnata al sentirmi ancora e sempre come Mafalda, di cui indosso spesso
orgogliosamente una spilla? Nemmeno la maturità, i figli, il mio compagno di
tanti alti e bassi esistenziali mi hanno cambiata in questo.
L’essere come
siamo con naturalezza si paga caro, riflettevo oggi con un’amica, e vivere la
vita e le cose del mondo con passione e un po’ di irruenza non è (solo) un
fatto di gioventù, anzi spesso aumenta con l’età.
Come la libertà.
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