“Abbiamo
sbagliato”. Il tempo che passa e che affina le percezioni è crudele e allo
stesso tempo rassicurante come il volto di un vecchio amico.
Se gli anni
migliori sono passati bene e si è già venuti a patti con se stessi, allora si
può togliere il punto interrogativo a quella domanda che ci tormentava tutti,
nessuno escluso, fino a qualche tempo fa:
“(dove) abbiamo
sbagliato?”
senza
scorticarsi troppo l’anima.
Sento che
il mio interlocutore, un brillante ultra40 enne disoccupato, sta cercando e
probabilmente ha trovato anche lui una tregua, con se stesso prima che con il
resto del mondo.
Così
anche l’amica che mi spiega che si è presa una pausa con quella che stava
diventando un’ossessione, quasi come la ricerca di un figlio. La realizzazione
di sé- di cui il lavoro è certo parte fondamentale- è in effetti importante
come la maternità, rifletto. Ci costruisce come persone.
Il primo
mi risponde che no, secondo lui non abbiamo sbagliato. E’ andata, e sta
andando, così. Ad altre generazioni prima di noi sono toccate la guerra, la
fame, e forse anche l’ambizione; oppure le mollezze, la vita facile, perfino la
fortuna. Adesso, a noi, toccano questi tempi “liquidi” in cui talvolta la vita
deraglia, e quando lo realizziamo è tardi per invertire la rotta. O no?
Allora
devo correggere questo concetto che mi si forma nella testa e assume una forma
precisa, quasi corporea: abbiamo in qualche modo tutti fallito, in qualcosa. Il
fallimento può prescindere dalle responsabilità, e anche se ci fossero sarebbe
inutile premere il tasto rewind per
rianalizzarle per l’ennesima volta. Guardare indietro non serve a nulla, chè
quello che c’era da capire l’abbiamo capito, o almeno spero.
Abbiamo
fallito, naturalmente, nelle relazioni o perfino negli amori; magari siamo
arrivati a quest’età meravigliosa e terribile e siamo freddi come eravamo
vent’anni fa. In questo caso la malattia è inguaribile. Oppure non abbiamo
voluto figli e ora li vorremmo, o li abbiamo avuti e sarebbe stato meglio di
no: grandi fallimenti di una idea che avevamo di noi, che tuttavia siamo
sopravvissuti- spesso bene.
Talvolta
abbiamo peccato di innocenza, o di arroganza, o di ingenuità, che a vent’anni è
un diritto ma oltre i trenta è scelta di vita. Prendiamoci le responsabilità e
cerchiamo di non essere troppo cinici. Perché non serve a niente, e perché
domani è comunque un altro giorno.
Tutto
quello che possiamo fare è continuare a provare, anche se abbiamo fallito. Non
è un fatto di volontà o particolare forza, ma di sopravvivenza: lo trovo
naturale come il sole che sorge, la fame e la sete, e pure come quel sottile
dolore che accompagna i fallimenti di ognuno e a cui quasi ci siamo
affezionati. La verità, vorrei dire a questi amici con cui ho parlato negli
ultimi giorni, è che
non abbiamo scelta.
Visto che
per fortuna non siamo ancora morti tutto quello che possiamo fare è continuare
a provare: nel lavoro, negli amori, con gli amici o i genitori o i figli, nelle
relazioni, badando a fare le cose come
meglio possiamo, e tenendoci lo spazio per fare quello che ci rende anche solo minimamente
felici. Ma anche poco poco, proprio. Anche se siamo stanchi.
Non c’è
alternativa, solo istinto di sopravvivenza. Perché domani è un altro giorno,
per forza.
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