AAA Giornalisti Anonimi/9. Parole. Parole. Parole!!1!!1



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“Chi è giornalista, lo è per sempre. Rassegnatevi e praticate la nobile arte dell’analfabetismo di ritorno

Così recita un cartello appeso nella saletta in cui, dopo una faticosa colletta su scala nazionale necessaria per racimolare i soldi dell’affitto, si riuniscono i Giornalisti anonimi di (una, questa: qualsiasi) città. 
E’ stato semplice: un membro del primo Gruppo, praticamente un pioniere della disintossicazione, ha proposto una iniziativa ad hoc per raccogliere qualche soldo per la causa. Le abitazioni personali e le salette parrocchiali non andavano più bene; le prime perché talvolta ci abitano anche altre persone che hanno diritto ad una loro vita, e le altre perché i parroci cominciavano a fiutare il pericolo delle nuove droghe.

Allora cosa ha proposto Carlo P. (nome di fantasia)? Ma è semplice: di fare un appello su Facebook, che cominciava con “Condividi se…” a lettere cubitali rosse, un testo lungo e piuttosto confuso con qualche errore ortografico e molti punti esclamativi che raccontava la triste storia della malattia rara e non riconosciuta della dipendenza dal giornalismo e  il numero IBAN bene in evidenza, e il finale con un “FAI GIRARE!!1!2ù”.

L’escamotage ha funzionato e sono arrivate diverse donazioni (molto piccole, a dir la verità: è stata scientificamente dimostrata la correlazione fra chi ha questo problema di dipendenza e un ISEE quasi azzerato). Per qualche mese, quindi, l’affitto della saletta è garantito. Quel cartello è lì a ricordare il motivo per cui ci si incontra: guarire dalla SDVFG (Sindrome del “Voglio fare il giornalista”). Se possibile, s’intende. Sennò, a convivere con il problema, proprio come i colleghi alcolisti della saletta vicina.

E’ un qualsiasi pomeriggio di inizio primavera; una ragazza ha portato anche un thermos di caffè caldo e quasi tutti se ne versano un po’, prima di cominciare. Nella seduta precedente il coordinatore di turno aveva lanciato la proposta di un gesto eclatante, e oggi decide di spiegarla meglio.

Si chiama Pietro, è uno dei coordinatori più esperti. Sui quarant’anni, ha attraversato il deserto del Gobi della professione per approdare a una oasi benefica per la mente e il corpo, e oggi fa il falegname.

Pietro: “Buongiorno a tutte e tutti, siamo qui riuniti per…”

Tutti, in coro: “…per cercare di cambiare le cose che possiamo cambiare e accettare quelle che non possiamo cambiare o come cazzo si dice!”

P.: “Sì, perfetto. Avete lasciato all’ingresso tutti gli Ipad, gli smartphone, i pc? Spenti, mi raccomando! Bene. Vorrei a questo proposito illustrarvi la mia proposta, che è incentrata sull’accettazione di sé, e del nostro problema”

Tutti:dicci, Pietro. In massimo 140 caratteri!

P.: “Ecco, la mia proposta è di organizzare una riunione fuori da qui, in un luogo fortemente simbolico, per affrontare le nostre paure, guardarci dentro…stare vicini gli uni agli altri e vedere che succede!”

Una ragazza lo interrompe: è pallida, forse le manca l’aria. La stanza è piccola, e i malori non sono infrequenti durante le sedute. Con voce fioca riesce a dire soltanto: “203 caratteri spazi inclusi…hai superato il limite!”.

Pietro è attonito. Il problema collettivo è più duro del previsto. Eppure perdere il dono della sintesi, pensa, è il primo segnale di ripresa psicologica. Decide di farsi forza e continua: “…amica mia, respira profondamente. Ecco, sì, datele un altro po’ di caffè…dicevo, un luogo simbolico che ci aiuti a svoltare radicalmente. Non  sarà facile, e ve lo dico prima perché non tutti possono reggere certi shock emotivi…”

“ Ho capito”, rabbrividisce un partecipante sui 40 anni “vuoi che ci riuniamo sotto la sede dell’Ordine!”.

Cala il gelo. Nessuno, nella saletta, ha ancora pagato la quota annuale scaduta a gennaio. Un po’ perché ti piange il cuore, un po’ perché se non lavori come giornalista, perché mai dovresti pagarla?

Nessuno vuole rinunciarci, non ancora. La restituzione del tesserino è una fase molto avanzata del percorso di recupero, e finora si conoscono soltanto pochissimi casi: tra questi, quello di una collega che l’ha bruciato e poi ne ha disperso le ceneri davanti all’Ordine, appunto, dopo aver visto in televisione definire “giornalista” una tizia che evidentemente pensava che il congiuntivo fosse una malattia degli occhi (cit.).
La collega è poi passata a miglior vita, nel senso che è emigrata in Brasile e di lei non si hanno più tracce.

Pietro puntualizza: “ ma no, non pensavo all’Ordine. Loro non sanno nemmeno chi siamo…e spesso noi non sappiamo chi sono loro. Pensavo a qualcosa di meglio, perché so che se ce l’ho fatta io, possono farcela anche tutti!
Avete presente la nuova Piazza dei Giornalisti? Faremo lì la riunione. E ne usciremo più forti di prima!”

Qualcuno, in fondo alla saletta, vicino al muro di un indefinibile beige, piagnucola. 
E’ Valeria, una vecchia conoscenza dei Giornalisti Anonimi: qualche tempo fa, coordinò anche una seduta del gruppo, salvo poi avere una ricaduta. Brutta, come tutti gli errori che si possono commettere in un percorso di recupero: ha ripreso in mano perfino un romanzo sepolto in un cassetto, salvo poi rendersi conto che la salute è più importante.

 Valeria: “…io. Io credevo. Credevo di avercela. Di avercela fatta. Invece erano solo parole. Parole vuote. O piene, non ricordo più. Parole. Inutili. Forse. Si. No. parole parole…”

Il vicino di sedia mormora: “quelli erano Mina e Alberto Lupo…”

Valeria (alzando la voce, un po’ stridula): “Embè? Anche le mie erano parole. Di carta, di stagno. di cotone. Parole!”

Il vicino, che è poi Carlo P., quello della petizione online per la raccolta fondi: “ehm, quelli sarebbero gli anniversari di nozze…, di legno, di ghisa, d'argento, d'oro...”

Pietro, vista la mala parata, interviene: “Signori, calma, per favore. Abbiamo capito che Valeria ha un problema di ricaduta, ma è normale. Succede quando si legge qualcosa che non si sarebbe dovuto leggere, magari su un giornale vero, soprattutto se privo di senso. 
E’ il senso del giornalista per il massacro della lingua italiana, diciamo. 
Questo crea un brutto cortocircuito per cui si incomincia anche a parlare così, usando troppi punti, o al contrario ignorando la virgola, questa sconosciuta
Succede molto spesso. Ma tu, Valeria, hai le tue responsabilità!”

Valeria piange apertamente, adesso. Il vicino di sedia, premuroso, le allunga un fazzoletto di carte e per consolarla le sussurra: “Non fare così, dai. Io ti capisco, il minimalismo giornalistico fa quest’effetto. Frasi brevi, incisive, spesso senza soggetto né predicato. Vabbè. Piuttosto, ieri ho letto l’articolo di un giornale nazionale in cui una nobildonna che si diletta a scrivere ha pubblicato una grande inchiesta sul sesso tra teenager…una inchiesta, capisci? Tipo tema di terza media, con parole tipo cazzoculofigatette….”

E’ la fine. Improvvisamente a Valeria si rovesciano gli occhi, trema, scivola dalla sedia. Sviene. Panico in sala. Qualcuno le solleva le gambe, Carlo P. accenna anche una respirazione bocca a bocca ma viene allontanato subito. Pietro lo guarda storto. La seduta è interrotta, e lui non è ancora riuscito a spiegare la sua idea un po’ “psicomagica” della riunione in esterno.

Pietro: “Va bene, finiamo qui per stasera. Ci vediamo la settimana prossima, puntuali. E tenete bene a mente cosa vuol dire continuare a leggere i giornali! Avete visto cosa può succedere? Pensateci bene: l’analfabetismo di ritorno è la risposta.
E ricordate che è vietato qualsiasi esercizio intellettuale, anche “Quiz Duello” sul vostro smartphone!

Tutti si affrettano verso l’uscita. Fuori l’aria è fragrante, bellissima: la primavera, forse, sta davvero arrivando. E con essa i cinguettii degli uccellini, coperti da quelli delle notifiche di una decina di telefoni che si riaccendono.

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