La vita in due buste di plastica, o in un cartone. A Cagliari, capitale del Mediterraneo.



E’ da un po’ che non la vedo in giro. 
Sui settanta, forse qualcuno in meno di quelli che il volto segnato mostrava al mondo. Sempre ben truccata, con il rossetto e gli orecchini a clip, il cappotto liso ma in ordine, e spesso i pantaloni sotto la gonna lunga, o delle ballerine sfondate ai piedi ingrossati.  Una signora dallo sguardo sereno, i modi gentili, che sorrideva vagamente trapassandomi con lo sguardo se qualcuno le cedeva il posto sull’autobus. L’ho sempre vista lì, per molto tempo, da sola: sempre sulla stessa linea che va e viene dal centro, sempre con una o più borse e almeno una grossa busta di plastica, incongrua rispetto al resto. Mi è capitato di vederla sonnecchiare alla fermata, con i suoi orecchini o le numerose collane a corredo di mise precarie, improbabili per la stagione, crudelmente indicative di una vita diversa. Diversa da chi?

Incontro spesso, invece, un’altra donna, molto più giovane, sui quarant’anni. Anche lei ha il viso segnato e gira con una o più borse, talvolta un borsone sportivo, di quelli da palestra. E’ sempre presente ovunque ci sia un evento collettivo: l’inaugurazione di una mostra, la presentazione di un libro, perfino i festeggiamenti elettorali del nuovo presidente della Regione. Una inguaribile presenzialista? Una perdigiorno senz’arte né parte? Le sue scarpe da uomo, il suo giubbotto di due taglie più grande, quello sguardo distaccato con cui ha aperto il borsone per estrarne qualche biscotto mi hanno fatto pensare alla ricerca di una tana, di un rifugio, di un posto- e forse anche di un pasto- caldi.
Una verifica incrociata con altri amici ci ha permesso di capire che questa ragazza è ovunque, sempre sola. Arriva, si cerca un angolo, forse un po’ di compagnia- anche muta. Diversa, ma da chi?

Infine c’è la ragazza del cartone. Ha una età indefinibile, fra i trenta e i quaranta, e mi è capitato di incontrarla in diversi punti della città. Sempre, comunque, nei paraggi di un cassonetto. Straparla a voce alta per strada, perduta in un mondo parallelo dal quale non so se si stacchi mai, e quasi sempre indossa dei guanti, in ogni stagione. Emana un cattivo odore, è vestita a strati, è sola con la sua scatola di cartone che porta in spalla. Qualche volta cerca di parlare con i passanti, che ovviamente la scansano, turbati non solo dai suoi occhi lontani e pure fiammeggianti, ma credo anche dalla sua stessa esistenza, così diversa. Da chi?

Tre donne, tre esistenze diverse, certo, non solo dalla mia ma anche dalla vita media di chi ogni giorno fatica normalmente, lavora normalmente, vive normalmente

Cioè in un ambiente sociale, di qualunque dimensione, che rispetti degli standard minimi di sopravvivenza e anche di relazioni. La sensazione che ho avuto io osservando queste persone è stata, invece, quella di una profonda solitudine. Come se la vita che a un certo punto deraglia si portasse via anche tutte le altre persone, come se lasciasse soli in una bolla, su un autobus o per la strada.
Chi sono queste persone? Com’era la loro vita prima- prima di cosa?
Come è possibile che solo io le noti, mi sono chiesta con sgomento?

Non è vero, ovviamente e per fortuna: nella mia città- che è molto bella e per cui qualcuno ha coniato la definizione (ipotetica) di capitale del Mediterraneo prima e di Capitale europea della Cultura 2019 poi- ci sono strutture e associazioni che prestano soccorso e assistenza materiale e spirituale ai bisognosi. Ma questi bisognosi, in costante crescita (qui l’archivio povertàIstat, dati relativi al 2012), chi sono oggi e chi sono stati prima? 
Sono così diversi da noi normali fa renderli trasparenti?

Ricordate quella trasmissione bella e insolita (infatti durò forse solo una stagione o due) che conduceva Marco Berry, Invisibili? Raccontava senza piagnistei e senza pietà pelosa le vite degli altri, di quelli che per tanti motivi si trovavano a vivere ai margini. Poche volte in vita mia ho versato lacrime davanti alla televisione, e soltanto di fronte al racconto della realtà. 

La concretezza di quelle esistenze, di quelle persone che riconoscevo come miei pari, solo vittime di un caso bastardo, del destino cinico e baro, delle occasioni perdute e mai più tornate, io le avrei fatte vedere nelle scuole, negli uffici, per la strada.

Per capire – e per accettare senza spaventarsi troppo- che anche di questo è fatto il mondo che abitiamo.

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