La considerazione arriva a
metà del vino bianco, in una normale trattoria del centro: “Vedi, se noi
avessimo un decimo della volontà e dell’ambizione del politico X saremmo ricchissimi.
Se il politico X avesse un decimo dei nostri talenti, sarebbe il presidente
dell’America”.
Non l’ho detto io, ma
esprime bene la sensazione che mi accompagna da tempo. Ho sempre pensato e
scritto che se la mia generazione fosse vissuta quaranta o cinquant’anni fa con
le stesse energie e la stessa tigna che abbiamo oggi, saremmo tutti capitani
d’industria, politici di livello, professionisti affermati o semplicemente
lavoratori stabilizzati (e quindi stabili in molti altri aspetti
dell’esistenza).
Invece.
Invece abbiamo visto
accadere il rovesciamento del mondo, e ci siamo accorti con ritardo che nelle
due generazioni passate c’è stata abbondanza di occasioni a fronte di una
normalità delle persone, mentre oggi si richiede l’eccezionalità delle competenze
in relazione ad opportunità anche “normali”, quando non modeste. Alcune
selezioni lavorative in questo senso sono emblematiche, anche quando non tarate
sul candidato prescelto “a priori”. Ma queste sono cose che sappiamo, e di cui
parleremo un’altra volta.
Il rovesciamento del mondo
è quello per cui l’incertezza e la non rispondenza di questa realtà alle
aspettative (che sono un fatto personale) e agli investimenti sul capitale
umano (che è una cosa più oggettiva) colpiscono molti – non tutti ma molti- di
quelli nati fra il 1970 e il 1980, grossomodo, che non hanno trovato o
mantenuto un lavoro stabile dopo il 1999-2000.
A prescindere dal
titolo di studio, dalla modernità delle competenze, dalle esperienze pregresse.
Ovviamente le statistiche e gli esperti ci dicono che avere un grado medio-alto
di scolarizzazione è preferibile, che in caso contrario si è meno
“collocabili”.
Certo più fragili, disorientati, meno disponibili e pronti ad interpretare
quello che (ci) accade.
Questa è la teoria. La pratica
ci insegna che una volta perso il lavoro trovarne un altro è molto difficile,
in generale, e per chi è diventato precario (nella più ampia accezione del
termine: autonomi, professionisti, ex dipendenti, collaboratori, partite IVA,
ecc.) a cavallo del 2000 e negli anni successivi è ancora più difficile. Si
chiama “disoccupazione di lunga durata”, che dura cioè per più di 12 mesi, e
come è facilmente intuibile colpisce maggiormente gli adulti over 35 per
l’innesco di un circolo vizioso dovuto a quella che dovrebbe essere una età
lavorativamente avanzata (ma visti i tempi italiani di studio e ingresso nel
mondo del lavoro spesso non lo è).
Nessuno sembra considerare
il problema degno di nota. Con sgomento verifico ogni giorno che la classe
politica nazionale e locale e i media ignorano totalmente una grande fascia
della popolazione, che oltretutto è contemporaneamente decisiva per le
questioni demografiche e dei consumi (e pure dei costumi della società) e
quella più vulnerabile da un punto di vista sociale e pensionistico.
Perfino noi stessi abbiamo
smesso o mai iniziato a parlare di noi in maniera costruttiva. Per lamentarci
della nostra sfortuna, accusare chi è venuto prima di noi di “essersi mangiato
tutto”, per diventare qualunquisti e distruttivi? Ma quando mai.
Semplicemente, vorrei che
il popolo politicamente e mediaticamente invisibile di gente che “fa cose”, ha
idee, che ha capito che condividere le informazioni è più utile che auto
referenziarsi ad minchiam, che ha
curiosità e diverse esperienze e le veicola, capisse che esiste.
Che sono, e siamo, molti.
Abbiamo capacità, abbiamo una energia spesso repressa dalle difficoltà
finanziarie, dai lacci burocratici, dal sistema di clientele e dalla mancanza
di visione dei decisori politici. Che sono mediamente molto, ma molto più
mediocri di quanto noi potremo mai essere, vedi il caso del politico X: che
però ha avuto ambizione, tenacia e colpo di culo.
Esistiamo nelle imprese,
nella comunicazione, nel turismo, nella cultura. Lavoriamo con fatica e tenacia,
consumiamo, usiamo le nuove tecnologie e quindi ci informiamo diversamente.
Prima o poi, se non altro per mere questioni anagrafiche, il sistema feudale di
potere verrà soppiantato da pratiche più sofisticate.
Siamo spesso qualificati o
anche no, ma comunque con una voglia di lavorare che forse è di nuovo quella
dei nostri nonni, mediamente poveri e comunque più austeri, certo non baby boomers che hanno beneficiato, come
si aspettavano e come è normale, dell’ascensore sociale.
Capire che esistiamo e
siamo molti – molti più di quelli che io conosco, mica sono l’unica a conoscere
gente interessante, no?- è il primo passo per capire che contiamo, anche
politicamente. Si chiama “pressione civile” e mi piace pensare che consista in
una attenzione più marcata alle proposte politiche che ci vengono fatte, alla
riflessione su quali sono le esigenze o i valori dirimenti per ognuno (la
famosa domanda definitiva), e alle decisioni conseguenti.
Visto che noi siamo tanti,
e dobbiamo essere esigenti, è ovvio che il mercato deve migliorare la qualità delle offerte:
altrimenti ciccia, tanto peggio di così non può andare (almeno fino al tracollo
del capitalismo, ma mi dicono che ci vorrà ancora un po’. Poi comunque subentra
Keynes e il lungo periodo in cui siamo tutti morti, e amen).
Siamo, probabilmente, se
non il primo almeno il secondo partito italiano, sicuramente sardo, stavolta a prescindere dalla generazione: produciamo
– opinione, cultura, arte, informazione e promozione per il nostro
territorio- e spesso non ci pagano o il
nostro lavoro non è considerato tale, abbiamo un’età per cui non dobbiamo più
accettarlo, ma certamente possiamo fare pressione.
Oltre, s’intende, ad
arrabattarci giornalmente per schivare ostacoli che non immaginavamo, ma ai
quali ormai ci siamo abituati. E a resistere, la parola fondamentale.
Etichette: antipolitica, cultura, disoccupazione adulta, elezioni regionali Sardegna, francesca madrigali, la mia generazione, lavoro, sardegna, sardità, turismo