Non so
cosa pensare di studi come quello raccontato da La Repubblica, che monetizza il
lavoro delle casalinghe e lo valuta 7000 euro al mese, mettendoci dentro anche
le competenze manageriali (perché non hanno
mai visto casa mia), il lavoro di counseling con marito e figli (perché
non conoscono i miei tre maschi moralizzatori: ad avere bisogno della psicologa
sono IO!). Mi lascia perplessa, ma non capisco bene perché. Forse perché è un
concetto ovvio.
Intanto, una osservazione di stile: non chiamateci “casalinghe disperate”,
perché quelle vivono in villoni spaziali, sono perfettamente truccate e
soprattutto hanno un sacco di tempo per incasinarsi in altro.
La vita delle donne normali, in Italia, è sempre mediamente da casalinga, cioè
di chi si occupa delle casa e della famiglia anche non in via esclusiva. Colpa
della scarsa educazione alla suddivisione paritaria del carico familiare, della
nostra cultura ancora maschilista e familista, per cui in caso di necessità di
assistenza e cura per le fragilità di ogni età prima ci si rivolge alle donne e poi allo Stato.
Il
“caso-casalinghe” dimostra sostanzialmente due cose: una, che il valore di un
lavoro, di una attività, di un “fare” acquisisce valore solo se è monetizzabile
e monetizzato, perché il denaro è il nostro metro di giudizio, non il fatto di
lavorare in sé (o almeno questo è un altro discorso).
Due, che le parole sono
importanti.
Nessuna
vuole essere definita “casalinga” (uso esclusivamente il femminile perché allo
stato dell’arte la questione riguarda quasi esclusivamente le donne): lo
capisco dagli sguardi orripilati delle amiche e perplessi degli amici quando
utilizzo questa parola riferita a me stessa.
E’
importante, credo, anche essere altro,
e trovare il tempo e la forza per provarci; e in questi tempi feroci,
soprattutto, sembrare altro.
Sulla
prima ci sono, sulla seconda non so.
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