Il dibattito su Cagliari, intendendo quello che non si ferma alla
contingenza dei problemi quotidiani dei suoi abitanti, che riesce a
riflettere sul suo ruolo rispetto alla Sardegna e all’Europa, che
prefigura scenari futuri rispetto ai quali organizzare le energie
sociali, e così via, è presente anche se carente nella realtà culturale
della città. Segue un andamento di tipo “carsico”: corre in
modo prevalentemente sotterraneo, ogni tanto riaffiorando con i
contributi di singoli intellettuali o, in misura più partecipata da
diversi soggetti singoli o associati, in relazione a scadenze elettorali
o ad altre particolari circostanze. Tra queste le più importanti negli
ultimi anni sono state le fasi di elaborazione del “piano strategico
della città” e del “piano strategico dell’area vasta”. A dire il vero il
rilevante lavoro prodotto è stato in gran parte sprecato, seppure resta
disponibile un’interessante documentazione, fruibile sul sito web del
Comune (1) (2). Sono tutte parole, per fortuna in questo caso scritte,
che però tali rimangono, senza tradursi, se non in minima parte, in
effettive realizzazioni; sono elaborazioni interessanti ma in gran parte
inutilizzate, come dimostra il piano del Comune per la candidatura a
“capitale europea della cultura 2019″, che sembra prescinderne.
Si ripete anche in questo caso il vizio del “ripartire da zero” che fa
sprecare risorse e fa perdere di efficacia all’azione politica e
amministrativa delle Istituzioni.
Occorre invece rilanciare il dibattito su Cagliari, raccogliendo tutti i
contributi del passato che mantengono validità insieme a quelli che si
sono aggiunti e vanno aggiungendosi di recente, lasciando alla politica
il compito di portare a sintesi operativa le indicazioni su cui si trova
la più estesa convergenza.
Prima di riproporre le questioni strategiche vogliamo soffermarci su un
altro comportamento patologico delle nostre Istituzioni: quello dei
“compartimenti stagni”, cioè dell’incapacità di agire “a sistema” (la
leale collaborazione istituzionale). Forse ci si illude che le decisioni
prese in solitaria dai
singoli Enti possano essere inserite da una “mano invisibile” in un
coerente disegno complessivo, purtroppo inesistente. Così non si va
molto lontano. Tra i molti esempi che si potrebbero fare al riguardo ci
limitiamo a due, importanti ed emblematici: la zona franca e la
questione delle abitazioni.
Per quanto si riferisce alla zona franca, parliamo dei punti franchi doganali (non
quindi delle fantasie demagogiche di Cappellacci o della pessima e
inutile leggina approvata di recente dal Consiglio regionale), cioè di
quelli che potrebbe essere già operativi (per il punto franco di
Cagliari il ritardo assomma a oltre dodici anni) e che inspiegabilmente
non si fanno, per colpevole inerzia di molte Istituzioni a partire dalla
Regione. I punti franchi porterebbero benefici in termini di
occupazione e di incremento di attività economiche innovative, se
attuati con modalità intelligenti, come, per esempio, dimostra
l’esperienza di Barcellona (ampiamente studiata dai nostri politici in
innumerevoli viaggi-studio). Per quanto riguarda Cagliari (ma discorso
analogo può farsi per gli altri 5 punti franchi previsti dalla normativa
vigente) perchè la zona franca possa concretizzarsi con questa valenza
occorre che si impegnino più soggetti, raccolti in una compagine sociale
a cui partecipino la Regione, l’Autorità portuale, la Camera di
Commercio, l’Università e, infine, il Comune capoluogo, che dovrebbe
assumerne la guida politica.
Cosa si è fatto al riguardo? Quasi nulla, se si eccettuano alcune
iniziative, pur apprezzabili, dell’attuale autorità portuale,
Piergiorgio Massidda, giunto peraltro al capolinea del suo incarico. Per
il resto i possibili partner si ignorano, quando non sono l’un contro
l’altro armati.
Veniamo
ora della questione delle abitazioni. Cagliari, in costante emorragia
di abitanti in favore dei centri limitrofi, non può pensare di risolvere
il problema riattirando gli abitanti perduti per i quali costruire
nuove abitazioni, che andrebbero a saturare le poche aree disponibili.
L’operazione già di per sè non condivisibile di “Su Stangioni” potrebbe
essere letta in questa luce, specie pensando al possibile aumento
dell’edificabile (vedasi al riguardo l’ottimo dossier predisposto dal
circolo PD Copernico di Cagliari) (3). Piuttosto occorrerebbe rimettere
in gioco le numerose case sfitte e riqualificare il patrimonio edilizio
esistente, soprattutto in favore dei ceti meno abbienti e delle fasce
giovanili. Si deve pertanto affrontare la questione abitativa in termini
di “area vasta urbana”, con appositi piani intercomunali. Occorre al
riguardo pianificare il territorioinsieme con
gli altri Comuni dell’area vasta. Cosa che si dovrebbe fare subito e
che non si fa, ma che sarebbe più agevole (e obbligatorio) fare con la
costituzione della città metropolitana (vedasi al riguardo lo studio
della Società geografica italiana in collaborazione con il CNR) (4). Le
responsabilità di questa situazione negativa sono tutte della classe
politica. Ne vogliamo parlare?
Tornando al dibattito sulle linee strategiche, volendo individuarne una
prioritaria, ovviamente discutibile, ci sembra interessante proporre
quella avanzata da Paolo Fadda, storico e studioso cagliaritano, nel suo
recente libro “Da Karel a Cagliari”, riassunta nella rappresentazione
di una “Cagliari città d’acqua”, che punta sui suoi stagni e soprattutto
sul mare come nuova opportunità di sviluppo. Sostiene Fadda: “La nuova
centralità assunta da Mediterraneo, per l’emergere di nuove potenzialità
ed aspirazioni economiche fra i popoli rivieraschi, fa ben sperare che
il mare ritorni ad essere la locomotiva trainante del progresso
cittadino”.
In questa proposta, che condivido, trovo un ideale accordo, con Giovanni
Lilliu, nel momento in cui invitava i sardi (e qui Cagliari può dare
l’esempio e dimostrare l’intraprendenza dei cagliaritani) a
“riconquistare” il mare (“per riconquistare la libertà”, diceva Lilliu),
facendo leva, valorizzando e, se vogliamo, anche superando, la famosa
“costante resistenziale” (al riguardo facciamo riferimento
all’intervista fattagli da Francesco Casula per Cittàquartiere, nel
maggio 1987) (5).
Bene! Dunque guardare al mare come nuova frontiera. Ma non si può ridurre tutto alla suggestiva enunciazione.
Cosa può significare questa “scelta strategica”, ovviamente se condivisa (ed è tutto da verificare)?
Possiamo
trovare molte e significative implicazioni, che lasciamo
all’approfondimento e alle integrazioni del dibattito, riconoscendo come
in molti casi si tratta di sviluppare quanto di positivo si sta già
facendo (porto, porto-canale, Poetto). Voglio però qui indicarne alcune,
solo a mo’ di esempio, in aggiunta a quanto già detto. Si potrebbe:
- predisporre un utilizzo turistico del complesso lagunare;
- riprendere un utilizzo produttivo delle saline;
- riconvertire la Fiera internazionale e aprirla al mare;
- rafforzare le pratiche sportive sull’acqua;
- orientare investimenti d’impresa sulla cantieristica da diporto,
proiettandoli verso nuovi mercati come quelli del nord Africa;
-
rafforzare il sistema formativo, a partire dagli Istituti professionali
nautici fino a dare vita all’ “Università del mare”, basandosi sulle
competenze esistenti negli Atenei sardi, anche con l’utilizzo delle aree
e strutture da smilitarizzare.
Volutamente in queste riflessioni si tralasciano gli aspetti che
attengono all’incontro tra differenti culture dei paesi del bacino del
Mediterraneo, che potrebbero vedere Cagliari come centro di scambi e
iniziative di rilevante importanza. Ma questo è un ulteriore filone di
riflessione.