Nel
1958 Thomas Münster, un ingegnere tedesco, scrive un attento diario di viaggio
dei suoi soggiorni in Sardegna intitolato “Parlane bene” (della Sardegna). Si
racconta di un’isola da poco entrata nella “modernità” e che ancora porta con
sè i segni profondi di un passato lontano, importante e profondo. Segni che a
un cittadino europeo del tempo suscitano sensazioni di stupore e affetto miste
a preoccupazione. Ne avverte da subito, infatti, la mancanza di senso storico
percependo come, nella pur ottima memoria dei Sardi, mancasse una dimensione,
come se tutti gli avvenimenti storici fossero visti “come su un dipinto,
contemporaneamente e uno accanto all’altro”. E come, a questo senso limitato
del tempo, corrispondesse un senso dello spazio anch’esso limitato e allo
stesso tempo complesso. Una complessità degli spazi che, ancora oggi, deriva da
una geografia difficile, da una memoria “labirintica” e da una storicità composita
che fanno dell’isola uno dei rari luoghi in Europa dove coesistono, in stretta
prossimità, elementi paleolitici, nuragici, medioevali, moderni o di
archeologia industriale.
Spesso
questa immagine, appena descritta, corrisponde a quella parte della Sardegna
che Nereide Rudas, nel libro “L’isola dei coralli”, ha definito il “triangolo
dell’isolamento”, ovvero quell’area che “poggia la propria base sulla costa
orientale dell’Ogliastra e della Baronia, abbraccia il massiccio del
Gennargentu con le sue propaggini e contrafforti settentrionali e meridionali,
include gli altipiani centrali per poi convergere con il vertice dei suo lati
verso il Montiferro e la costa occidentale”.
Questa
specifica area geografica e culturale, caratterizzata da una bassa demografia e
da tassi di isolamento molto elevati, è quella nella quale si distribuiscono,
per luogo di nascita, quelli che sono considerati alcuni tra i maggiori autori
sardi del Novecento e dove più a lungo si sono conservate la lingua e una
cultura autoctona.
Per
questi ed altri motivi, legati per esempio alle dinamiche migratorie interne
della Sardegna del secondo Dopoguerra o ad altre più squisitamente politiche,
economiche e culturali, la narrazione di questa parte della nostra regione è
quella che ancora oggi viene di norma considerata come la più autentica.
In
altri termini ciò che in questo testo intendo argomentare, con tutta la
sensibilità e l’attenzione che il tema richiede, è che a partire dagli anni
Cinquanta si sia affermata una narrazione e una rappresentazione dell’isola che
ha privilegiato una parte della stessa senza riconoscere altrettanta dignità
alle altre Sardegne, che pure esistono, e le cui storie, sistemi valoriali e
culturali potrebbero essere di enorme aiuto in quel percorso di costruzione di
una unità e di un destino collettivo che ancora è ben lungi dall’essere
realizzato.
E’
innegabile infatti come il focus abbia costantemente privilegiato l’interno
rispetto alle coste, le zone rurali rispetto a quelle urbane, il mondo agro-pastorale
rispetto a quello minerario.
Il
caso della Sardegna mineraria è, in questo senso, paradigmatico. Come è stato
ricordato da Paolo Fadda (studioso e storico cagliaritano, ndr), nel riflettere
sull’epopea mineraria sarda, è davvero incredibile come ancora oggi si continui
ad avere una modesta, se non scarsa, valutazione su cosa abbia rappresentato
per la Sardegna l’essere terra di miniere.
Spesso
infatti la lettura è non dissimile da quella che viene data al processo di
industrializzazione del Piano di Rinascita. Si pone (giustamente) l’accento su
quanto sottratto, depauperato, inquinato mentre non si riconosce pienamente,
con altrettanta determinazione, il valore di entrambe le esperienze.
Tralasciando, nel caso minerario, quanta civiltà europea (attraverso il lavoro
operaio, la scienza giuridica, la tecnica, l’organizzazione) ci sia stata messa
a disposizione e dimenticando importanti elementi simbolici che invece, a mio
avviso, dovrebbero essere parte integrante del nostro immaginario collettivo.
Penso per esempio al fragore del motore a scoppio della prima auto
immatricolata nel 1903 in
Sardegna (quello della Decauville 10HP del direttore della miniera di Buggerru)
oppure alla luce della prima lampadina elettrica che illuminò una notte sarda
(quella che si accese a Monteponi, prima località dell’isola ad essere
elettrificata). E’ vero che quelle miniere sono state chiuse, ma ancora oggi
quel mondo è protagonista di alcune delle più importanti esperienze europee di
recupero della memoria e della cultura mineraria, come testimoniato dal premio
del paesaggio del Consiglio d’Europa assegnato nel 2011 alla Città di Carbonia
per il progetto “Carbonia Landscape Machine”.
Nel
pieno rispetto e riconoscimento del patrimonio culturale, storico e linguistico
rappresentato dalla Sardegna “interna” dovremmo a mio avviso incominciare a
superare tutte quelle barriere che limitano una piena presa di consapevolezza
di tutte le altre Sardegne. Penso per esempio a quelle rappresentate dalle
diverse comunità di pescatori delle nostre coste, dalle varianti linguistiche
dell’open field cerealicolo campidanese, dalle città di fondazione (di epoca
sabauda e di epoca fascista), dalla ricerca scientifica e dalle attività
imprenditoriali.
In
caso contrario il rischio più grande sarebbe quello di alimentare un
identitarismo di maniera che spesso viene praticato sul piano politico e che
potrebbe invece essere mitigato provando ad indicare possibili filoni di studio
che ci accompagnino in questa contemporaneità.
Sicuramente
quel focus di cui si è parlato anteriormente tenderà a spostarsi, già se ne
vedono i segnali, dalle zone rurali a quelle urbane e dall’interno all’esterno.
In particolare è ragionevole pensare che nel primo caso si concentrerà sulle
nuove generazioni degli hinterland di Cagliari e Sassari e, nel secondo caso,
sull’emigrazione liquida delle fasce più dinamiche della popolazione sarda che,
pur lasciando l’isola, mantengono una relazione continua, fluida e diretta con
il territorio e le reti sociali di origine.
Fabrizio Palazzari
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