Quasi settembre, tempo di
bilanci. Non aziendali, eh: personali. Dove eravamo rimasti? Ah, sì: faccio
sempre parte della mia generazione, quella “di mezzo” fra i giovani veri e gli
esodati o quasi tali e chi si vede sfuggire la pensione sotto il naso, finestra
dopo finestra.
Siamo i nati negli anni Settanta, insomma: i nostri genitori ci hanno avuto
quasi sempre in giovane età, fregandosene beatamente del “lì e ora”, perché
qualcosa sarebbe pur successo. E infatti è andata così: hanno avuto due o tre
figli, lavorato più o meno duro, nei casi più fortunati ereditato qualcosa e
magari sono riusciti anche ad acquistare una o due case. Funzionava così, cioè
normalmente.
Nel mondo rovesciato che ci è venuto incontro e che ancora
sconcerta molti, le regole sono saltate completamente: se studi, non trovi
lavoro; e se non studi, peggio che mai. Se fai un figlio a 24 anni, poniamo, è
come la roulette russa, economicamente parlando; e se aspetti rischi di
raggiungere i 40 in
un attimo ritrovandoti nella stessa situazione di dieci anni prima. Nel
frattempo, abbiamo vissuto una vita al rallenty,
dove appunto le decisioni fondamentali vengono pensate, dibattute, ripensate e
infine accantonate in attesa di tempi migliori. Che però non abbiamo ancora
visto.
Lavoro e demografia sono aspetti della decadenza italiana, dai quali
discendono stili di vita, consumi, politiche del presente e del futuro. Proprio
perché viviamo una vita al rallentatore e contemporaneamente la nostra aspettativa
di vita è enormemente aumentata, e molti fattori hanno spostato in avanti il
momento delle decisioni cruciali, ecco che la “generazione di mezzo” è o
dovrebbe essere protagonista. Quindi sostenuta, o quantomeno presa in
considerazione. Per esempio, lo sapevate che a Milano si è concretizzato lo
storico sorpasso delle mamme (spesso primipare) 40enni rispetto alle ventenni?
E che la Sardegna è la regione italiana in cui l’età media del primo figlio è
la più alta? Così, per dirvelo.
Ma sono solo problemi personali
di alcuni? No. Sono, allora, problemi
importanti per un Paese che si racconta evoluto, “civile”, perfino
“sviluppato”? La domanda è retorica, e nessuno risponde. Anzi la stampa, e i
media in generale, si preoccupano sempre moltissimo della disoccupazione
giovanile, cioè “under 30”
(precisamente, ditelo ai genitori, ai nonni, ai vicini di casa, alle signore al
mercato, dei 15-24 enni). L’ultimo articolo afferma che "nel 2013 le
imprese del settore privato hanno messo in cantiere l'assunzione di oltre
120mila giovani con meno di 30 anni (29mila dei quali al di sotto dei 24)”,
certificando così, per chi ancora non lo sapesse, che l’età è un requisito
prioritario.
Chi non ce l’ha si attacchi, o cominci a pregare forte (qui l’inchiesta sui luoghi della fede, in cui molti lasciano anche il CV).
Il sito “change.org”, nel
promuovere una petizione “a sostegno dei disoccupati over 35”, parla di discriminazione e
snocciola i dati Istat, spaventosi. Ci siamo quasi tutti: disoccupati,
inattivi, licenziati, con o senza sussidi, più la grande marea grigia dei
“neet”, quelli che non studiano, non lavorano, hanno alzato bandiera bianca da
tempo e per le più svariate ragioni.
In Sardegna, attualmente, siamo
in campagna elettorale per le elezioni regionali del febbraio 2014. Abbiamo
sentito parlare di alleanze, primarie o anche no, talvolta di ambiente, di
visita del Papa, di razzismi, e incidentalmente di lavoro (al di là degli
slogan e delle necessarie sintesi da candidatura, intendo).
L’annuale Rapporto
sul Mercato del Lavoro in Sardegna (ed. Cuec), è impietoso: …(in Italia) La
disoccupazione “adulta”, dai 25 ai 64 anni attualmente è quella prevalente. Nel
2011, infatti, i giovani disoccupati erano 482mila, quelli maggiori di 25 anni
1.625.000 di cui oltre 900mila con più di 35 anni. In Sardegna, rispettivamente
21mila, 73mila e 43 mila con più di 35 anni.
La durata (oltre 12 mesi) dello stato di disoccupazione colpisce ancora
una volta maggiormente le classi di età più elevate…..(Da Sardinews di luglio 2013)
Questo articolo sul Sole 24 Ore pone una domanda molto opportuna: “La
disoccupazione di un adolescente (parliamo dei c.d giovani 15-24 anni, NdR)
rappresenta forse una perdita ben più grande per la società di quella di una
madre single o di un lavoratore anziano che spesso si trovano a dover sostenere
un’intera famiglia solo con il proprio stipendio? La perdita del valore
aggiunto prodotto da un adolescente è probabilmente molto inferiore”.
Allora, perché? Si accettano volentieri ipotesi.
…Così come il
sistema Italia è retto da un terzo della popolazione, quella che ha un lavoro
stabile, cui si aggiunge il 4,5 per cento di precari, così ogni sardo deve
farsi carico mediamente di 2,8 persone.
Anche l’isola, infatti, si regge sulla ricchezza prodotta da meno del 31
per cento della popolazione, quella che ha un lavoro stabile, cui si aggiunge
il 5,3% di occupati precari. Il Rapporto sul mercato del lavoro lo definisce un
“modello a bassa occupazione”: al numero basso di occupati si affianca quello
piuttosto corposo dei nei numeri dei percettori di trasferimenti pubblici
(oltre che nella incidenza delle attività irregolari): in Sardegna, che al
Censimento 2011 risulta avere 1.639.362 abitanti, ci sono 440mila pensionati a
vario titolo. A questi si aggiungono i beneficiari di indennità sostitutive del
reddito (cigs, mobilità, ecc.). (Rapporto
sul Mercato del Lavoro in Sardegna 2012).
Nelle “narrazioni” sulla nostra
isola non ci sono vie di mezzo: o disperati senza futuro, invidiosi e piagnoni,
o potenziali e fighissimi interpreti di una “nouvelle vague” (culturale, di idee, di progetti, di impresa,
anche), che dopo Renato Soru cerca disperatamente un nuovo/a leader in cui
incarnarsi.
Però quelli che più mi lasciano perplessa sono i cultori del
“lavoro che dobbiamo inventarci”, perché il “posto fisso” è finito: cosa di cui
ci eravamo accorti da tempo, e la cosa non ci ha resi tutti d’un colpo dei
novelli Archimede Pitagorico. Tant’è: gli investimenti pubblici tendono ancora
al sostegno alla libera iniziativa, che va benissimo, per i fortunati che le
idee le hanno.
Quelli che, insomma, hanno la visione della loro “startup”
(nonché lo spirito vero dell’imprenditore). E gli altri (ricordiamo, over 35 in cerca del Piano B)?
L’Italia e la
Sardegna presentano una quota particolarmente elevata di lavoro autonomo. In
Francia e Germania i lavoratori autonomi (self employed person) rappresentano
oggi l’11% degli occupati totali, nel Regno Unito sono il 14%, in Italia il 24
e in Sardegna (dove la dimensione media di impresa è di tre addetti) sfiorano
il 28 per cento. Però, nel 2011, su quasi
tre milioni di persone in cerca di lavoro soltanto 57mila, cioè meno del 3%,
dichiaravano di essere interessati a un lavoro in proprio. Questo dato può essere
significativo di una ampia disponibilità ad accettare anche lavori non cercati,
e anche del fatto che molte forme di lavoro autonomo sono a tutti gli effetti
dei lavori alle dipendenze. (Da Sardinews di luglio 2013)
Detto in parole povere, al netto
di tutta questa supercazzola di fine agosto: non siamo tutti imprenditori
(purtroppo o anche no, visto come lo Stato li tratta, dimostrando anche in
questo una mancanza di lungimiranza sconcertante), e talvolta gli incentivi
proposti (de minimis, bandi e contro bandi, fondi perduti, prestiti agevolati
ecc.) vengono vissuti come un ammortizzatore sociale più che come un sostegno
vero al lavoro.
Quindi, mentre noi degli anni Settanta – nongiovani ignorati dai media, dalla
politica e dalle politiche- cerchiamo di farci venire un’idea per
(ri)cominciare, per diventare anche noi start upper (again), il tempo passa. E
fra poco è di nuovo settembre, Cabudanni.
Tempo di bilanci: personali, non aziendali.Etichette: disoccupazione adulta, disoccupazione giovanile, elezioni regionali Sardegna, fare impresa, francesca madrigali, Istat, la mia generazione, lavoro in sardegna, lavoro over 35, mamme 40 anni, startup