Il fatto è, pensa chi ha questo
problema, che un giornalista rimane per sempre un giornalista, anche se riesce
a smettere. Proprio come un alcolista.
Quindi perché resistere? Perché, invece,
non abbandonarsi alla tentazione di scrivere solo un’altra cosetta, magari un inutile
post su un blog, un bel raccontino, fino alla inconfessabile e fin troppo
soddisfatta tentazione di scrivere un libro?
Perché si sta male, ecco perché.
Perché gli effetti collaterali di questa insana passione sono la megalomania
(per chi esercita), il reducismo (per chi ha esercitato bene e ora non più) e
la dipendenza vera e propria (per tutti gli altri).
Allora perché non immaginare un gruppo di auto-aiuto che aiuti ‘sti poveretti? (io non ho mica certi problemi, sulla vecchia carta d’identità avevo fatto
scrivere “casalinga”, con la tesi di laurea ci ho fatto il découpage a una
scatola e pago regolarmente la quota all’Ordine a giugno).
E comunque, sesta seduta di
terapia.
La seduta è coordinata, stavolta, da Giuseppe. E’ un ragazzo simpatico,
solare, che sembra avercela quasi fatta: dopo aver lavorato un po’ come
giornalista, ora fa l’assicuratore, come gli ha sempre suggerito il padre.
Non
è completamente guarito e ancora legge i giornali, ma è sceso da tre a uno,
quello locale, che spesso legge a scrocco al bar.
I dieci partecipanti si trovano nella
saletta della parrocchia di Maria, una degli “addicted”, che ha trovato
conforto nella fede dopo aver letto la seconda di copertina di un libro di
Paolo Brosio su Medjugorie (ma già il fatto di averlo preso in mano significa che la
motivazione era molto, molto forte). La sola esistenza di un libro simile– e le
copie vendute- hanno dato il colpo di grazia a Maria, che ora si rivolge a una
Entità superiore per cercare di guarire dal suo problema. Il parroco, impietosito, ha messo a
disposizione di questi “poveri giovani” (tutti oltre i 35 anni) uno spazio per
riunirsi.
Giuseppe apre la seduta con il consueto mantra: "Siamo qui per aiutarci a vicenda, noi faremo del nostro meglio
per ricordarci che dobbiamo impegnarci per cambiare le cose che possiamo
cambiare e accettare quelle che non possiamo cambiare o come cazzo era la
questione. Insomma, che la Forza sia con noi…vabbeh, cominciamo. Maria, vuoi cominciare tu oggi?”
Maria: “ grazie, grazie a tutti per essere qui. È molto
importante per me poter condividere questa cosa…questo problema”.
La luce filtra
dalle finestre, producendo un insolito “effetto Dio”. Appunto. Tutti, in coro, rispondono: “ciao Maria, grazie a te. Ti vogliamo
bene, ti vogliamo aiutare!”
Già questo
sembra rincuorarla. In realtà, e tutti lo sanno, aver lasciato sul tavolino
della sacrestia gli smartphone e gli Ipad provoca non poco nervosismo e
deconcentra tutti. Giuseppe, il coordinatore, lo sa e prende in mano la
situazione: “Maria, noi siamo pronti ad ascoltarti…vero?”
Qualcuno
tossisce, imbarazzato. Altri si agitano sulla sedia: è l’astinenza psichica, la
più pericolosa.
Maria ricomincia: “Sì, volevo
parlarvi appunto di come sono arrivata qui…di come ho deciso di rivolgermi al
gruppo di auto-aiuto. Io avevo un sogno, fin da ragazzina…”
Molti
sospirano, qualcuno impallidisce. Una ragazza, un po’ in disparte, annuisce
pensierosa, perché il problema si è manifestato molto presto anche per lei.
M.: “…fin da ragazzina dicevo che volevo fare la giornalista. Le altre
ragazzine dicevano la principessa, la dottoressa, la Lorella Cuccarini…io
leggevo Oriana Fallaci e a 15 anni ho cercato di leggere Guerra e Pace! Senza
grandi risultati, però. Avrei dovuto capire allora che sarebbe stato meglio
smettere. E invece…”. Si interrompe, una lacrima solitaria le solca il viso.
Giuseppe, un po’ scosso, le allunga un fazzoletto di carta.
Maria riprende,
incurante del silenzio che le si è creato intorno: “…invece qualcosa ho fatto. Ho scritto un po’ e pensavo che non era
una cosa grave, che potevo uscirne quando volevo. Poi ho cominciato ad avere un
bisogno sempre maggiore e quando è arrivato il primo co.co.dè era fatta, ormai
era fatta!” (la voce si fa stridula).
“ho scritto, sono stata pagata, tutto secondo
le regole, e mi sono iscritta all’Ordine dei Giornalisti.”
Tutti: “….”
e poi: “….davvero? ma come? Ma allora
sei figlia di…, o imparentata con…, o fidanzata di..?”
Maria, un po’
livida in faccia: “magari.
Sarei ancora da qualche parte, magari a scrivere di moda, di eventi, o cose
così. Anche correggere le bozze mi andrebbe bene, anche i necrologi! E invece
niente. E’ finita, finita” (piange senza
ritegno).
La ragazza
dell’angolo le si avvicina, la abbraccia e la aiuta a sedersi: “stai calma. Intanto non devi più entrare in una libreria e vedere
delle cose brutte, perché è già abbastanza difficile così, ma se poi vedi
libri di giornaliste che vendono centinaia di migliaia di copie con titoli come
“Sposati e sarai sottomessa”, ad esempio, o “In cucina con Nenna”, rischi di
aggravare moltissimo il tuo problema. Giuseppe, ma…che fai?”
Giuseppe, il
coordinatore, è seduto, pallido come un cencio, e suda visibilmente. In un
terribile flashback ricorda i migliori anni della sua vita, passati a scrivere
pezzi da 8 euro lordi senza la certezza di vederli pubblicati, per poi sentirsi
apostrofare urbi et orbi “uno sfigato” non solo da un pagliaccio sceso in
politica, ma anche, più prosaicamente, da un collega vecchio e sistemato che
mostrava così il suo disprezzo per i “giovani”.
“Tutto bene, solo un attimo…”
ansima. Pensa alle polizze della settimana precedente e la tachicardia diminuisce, perché
quello è il suo lavoro ora, un lavoro vero e pagato. Riconosciuto dal mondo.
Intanto, Maria
si è un po’ ripresa e ricomincia: “insomma, io
avevo questo sogno, che poi però si è infranto. Fin qui è normale, no? Può
succedere nella vita, no? Intanto, per fortuna, ho fatto altro…anche un
figlio!”.
Tutti: “OOOOHHHH!!!”
“Eh, sì, ora è grandicello, ha otto anni…molto carino,
sveglio. Legge volentieri, purtroppo…non sapevamo dove stoccare i nostri libri
e li abbiamo dovuti lasciare a vista, e tante volte confesso che mi sono anche
fatta vedere da lui mentre li leggevo…sapete, la depressione post-partum mi è
durata sei anni, perché sapevo che non avrei lavorato mai più, in Italia…”
Qualcuno si è
portato dei pastiglioni omeopatici da casa e li ingoia senz’acqua, altri
respirano forte nell’ambiente polveroso della saletta. La tensione, come in
tutte le sedute, è palpabile.
Maria continua:
“insomma, io lo amo, è mio figlio. Ma
qualche notte fa ho fatto un sogno, un altro sogno. Ho sognato che lui veniva a
dirmi che vuole fare il giornalista…e da allora non dormo più, neanche con gli
psicofarmaci che mi ha prescritto il medico!”
Il coordinatore guarda l’orologio: il tempo è quasi scaduto
e molti, rasserenati dalle medicine, mostrano impazienza e desiderio visibile
di riappropriarsi del telefono, della vita altrove, di un mondo fatto di scambi
di informazioni. Giuseppe incalza: “ eh,
vabbè, ma era solo un sogno, poi insomma c’è tutto il tempo di raddrizzarlo, il
ragazzino…”.
Maria si agita,
quasi urla: “era un incubo, il mio incubo
peggiore! Io non dormo più da quando l’ho sognato che mi diceva queste cose, e
ho una brutta sensazione…che succederà davvero, e magari avrà come superiore
uno che non sa usare il congiuntivo o che pubblica notizie sulle scie chimiche,
sulle galline in fuga dai pollai o che sciacalla sulle disgrazie altrui! Non
posso accettarlo, NO!”
Giuseppe le si
avvicina, fa un cenno al partecipante più vicino e insieme, prendendola per un
braccio, l’accompagnano fuori dalla saletta. Il parroco è in chiesa, li vede
arrivare e capisce la situazione: “vieni,
figliola. Parliamo un po’”.
Maria
acconsente docilmente, e il coordinatore, tornato nella saletta parrocchiale,
scopre che tutti se ne sono andati di soppiatto.
In lontananza,
si sentono i trilli delle notifiche degli apparecchi vari che sfumano nel
pomeriggio assolato.
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