C’è “grossa crisi”, e questo
ormai lo sappiamo tutti, lo sperimentiamo sul campo ogni giorno, guardando le
insegne dei negozi chiusi, le svendite tutto l’anno,il parrucchiere che
giocoforza abbassa i prezzi, i discount pieni e le botteghe vuote. Tutte le
attività “superflue” come, ad esempio, i libri, viaggi, le arti, la musica, il
teatro o il cinema sono, appunto, non strettamente necessarie alla
sopravvivenza e quindi vengono naturalmente tagliate per prime, se necessario.
Il virgolettato è d’obbligo poiché per alcuni, invece, il nutrimento dell’anima
è cosa essenziale al pari del pane, e contribuisce, comunque, ad arricchire e
rendere interessante il proprio tempo, favorisce la socialità, allarga gli
orizzonti: insomma, concretizza quella che si chiama “qualità della vita”.
Per fare la maggior parte di
queste cose, però, occorre disporre di denaro. Non cifre incredibili, sia
chiaro: non è necessario andare a New York due o tre volte l’anno, così come si
può andare a teatro anche random,
senza avere l’abbonamento o simili. Il problema della mia generazione non è
più, se mai lo è stato, quello di non poter fare tutto al massimo; ma semmai
quello di elevarsi un po’ dal minimo. Nonostante la paurosa crisi economica e i
media che ci assillano con il PIL e lo stato delle famiglie e delle imprese,
affermare- confessare- di non avere
(abbastanza) denaro è ancora uno stigma sociale; la contrazione dei consumi, che
noi conosciamo da un bel po’, sta arrivando ad un punto sostanziale, in cui la
qualità della vita comincia ad essere sacrificata.
In scala macro può essere la
decisione di non fare un figlio (ma la mia generazione di sempre giovani lo è
solo sulla carta, e i quarant’anni sono prima di tutto biologici); e in scala micro
può essere il non avere soldi per riparare la macchina se si rompe . Si chiama
decrescita infelice: non è frutto di una scelta, ma di una necessità non voluta,
non accettata forse, o vissuta come ingiusta.
E’ il famoso “ascensore sociale”
fermo, che per noi non è mai salito più di tanto e comunque al di sotto di ogni
ragionevole aspettativa, che conferisce al concetto di “decrescita” un sapore
beffardo, di radicalismo chic dei miei stivali. La sobrietà- utile e lodevole-
è un conto, ma non avere soldi per la benzina o per comprare la bicicletta a un
figlio è un segnale oggettivamente preoccupante.
La “decrescita infelice” è quella
di chi perde il lavoro e torna a vivere dai genitori, ma anche di quelli che
smettono di concedersi il piccolo lusso della colazione al bar, comprano gli
abiti solo dai cinesi, non escono più la sera. Mi si dirà: non è la
sopravvivenza, questa. Vero.
Rispondo che galleggiare è un’arte difficile, che se si protrae per troppo
tempo poi potrebbe provocare crampi e forse annegamento. E mi viene in mente I sommersi e i salvati, quel titolo così
evocativo che rappresenta quello che stiamo diventando: un mare di persone che galleggiano,
navigano a vista magari, in un incerto presente e un luminoso futuro dietro le
spalle. Con il peggiore effetto collaterale possibile, quello per cui i pochi
“salvati”- cioè quelli con un reddito, una entrata e non solo delle uscite, sì,
insomma: chi ha un lavoro che produce
denaro, che a sua volta produce qualità della vita- spiccano come
eccezioni, casi più unici che rari, marziani che possono pianificare,
organizzarsi, ma anche improvvisare, insomma vivere con una relativa
serenità. E questo può risultare
difficile da accettare, per chi boccheggia.
Ci stiamo dividendo, e non è un
bene: chi non ha mai provato lo sperdimento
della mia generazione
difficilmente potrà capirlo, come molti di noi guardano con stupore alla “qualità
della vita” talvolta esibita da alcuni, come se vivessero su un altro pianeta in
cui tutte queste parole non son mai servite né serviranno mai. E hanno ragione.
Perché la decrescita, felice o infelice, è per molti, ma non per tutti.
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