Un amico mi ha chiesto: “Ma tu, ci pensi mai a come sarà
quando i tuoi figli avranno vent’anni?”. No, gli ho risposto un po’ spaventata,
non ci penso mai.
Ho preso l’abitudine di rimuovere il pensiero del futuro, almeno per quanto
riguarda i suoi effetti pratici: un lavoro, una improbabile pensione, e il
destino dei figli. Studieranno? Avranno un lavoro? Vivranno qui o dovranno –
vorranno- andare lontano? Vivo alla giornata, anzi al quarto d’ora, ma non per
una scelta romantica: perché il tempo in cui mi è toccato vivere mi costringe a
non sviluppare aspettative.
Per i nostri genitori era diverso, infatti molti di
noi dell’ “età di mezzo” erano già “predestinati”: all’Università, alla
fiduciosa certezza che ci saremmo “impiegati”, in qualche modo. Trent’anni
dopo, i nostri genitori guardano sgomenti le nostre vite al “quarto d’ora”, e
noi saremo (siamo già) non solo la prima generazione che sta peggio delle
precedenti, ma la anche la prima che trasmetterà questa esperienza ai propri
figli.
Cerco di stare attenta a non essere distruttiva ma realistica, e già mi
preparo a tempi difficili, a lasciarli andare, nella speranza che è quasi una
certezza che loro faranno meglio, se non altro perché li avremo messi in
guardia da alcuni tragici errori. Tra i quali possiamo certo annoverare
l’indifferenza per i lavori manuali, come se fossimo stati programmati per
educare e coltivare un enorme cervello e poco altro; il culto, per alcuni,
dello studio come tappa obbligata, trascurando tutto il resto; e per altri, la
patologica fascinazione per i modelli della “vita facile”, il denaro come
valore assoluto, l’apparire –in televisione, soprattutto- ancora più che
l’apparenza.
Viviamo in tempi interessanti, come augurava quella antica maledizione cinese,
e non riesco a capire, guardando me stessa, gli amici della mia età, la gente
che cerca lavoro e quella che non lo cerca più, se questa crisi che dura ormai
da un decennio ci abbia fortificati o indeboliti. Non capisco ancora, perché
troppo denso è il cumulo di problemi e aspetti di questo periodo storico, se la
soluzione stia nel ripiegamento su se stessi, sul privato per chi è riuscito a
costruirselo, o piuttosto sull’aprirsi agli altri, con il formidabile aiuto
della tecnologia. Confrontarsi significa anche esprimere e subire critiche,
mostrarsi per quello che si è, con i propri sogni tramortiti e i propri piccoli
fallimenti.
Non tutti ne abbiamo la forza o la voglia, o ne condividiamo l’utilità. Che però mi sembra esserci, sul
medio-lungo periodo, anche se è faticoso, dispersivo, talvolta disperante.
Eppure qualcuno dovrà provare a raccontarli questi tempi interessanti, ai
nostri figli: non storie epiche come quelle dei bisnonni emigranti o
rassicuranti come quelle dei genitori “sistemati”, ma piccole storie minime,
individuali, tutte diverse ma accomunate da un luminoso futuro dietro le
spalle.Etichette: anni Settanta, crisi economica, il futuro, la mia generazione