Lorella Zanardo, già
autrice de “Il corpo delle donne” e del libro (insieme a Cesare Cantù) “Senza
chiedere il permesso”, è una attivista dei diritti delle donne. Da diverso tempo gira l’Italia, nelle scuole
e in incontri pubblici nelle città, per sensibilizzare i giovani e non solo al
problema della comunicazione mediatica relativa alle donne. Detto in soldoni,
si occupa soprattutto delle trasmissioni
televisive e delle pubblicità lesive dell’immagine femminile. Non si tratta
di femminismo, ma di educazione e di “ecologia” della comunicazione: per questo
è importante intervenire sui più giovani, che meglio capiscono e accettano i
punti di vista diversi da quello che decenni di televisione hanno innestato sugli
adulti.
L’abbiamo intervistata e
fotografata per il progetto sul
femminicidio “Uccidi anche me”, e
così anche il suo collega Cantù, in occasione dell’incontro pubblico che si è
svolto nei giorni scorsi a Cagliari.
Durante gli interventi, mi hanno impressionata soprattutto due cose: la
quantità di immagini e messaggi lesivi della dignità femminile e di tutti in
Italia, veicolati nei modi più disparati, e la testimonianza di come l’attivismo reale funzioni veramente. Zanardo e Cantù hanno infatti non solo
mostrato alcuni esempi di quelli che definiscono “una dieta mediatica monotona”,
soprattutto nella televisione generalista, ma anche di campagne pubblicitarie
bloccate grazie alla protesta in Rete, praticata con il “mail bombing” e le
proteste formali per iscritto.
Sono soprattutto i giovanissimi che si adoperano per
stroncare campagne come quella della Sisley che ritraeva una donna circondata
dai cetrioli o di una catena di negozi di sanitari in cui una
donna con le mutandine abbassate era ritratta sulla tazza del Wc, o mentre
vomitava.
Vi fa schifo, eh? Ve lo state immaginando? Ho anche le foto ma quelle della
pubblicità dei sanitari- affissa sui cartelloni in tutta la città, anche
davanti alle scuole- , che è stata bloccata dalla protesta della gente comune
(una notizia accuratamente mai riportata dai media nazionali come in casi
analoghi), non voglio veicolarla. E’ troppo anche per me. Non male quella della foto accanto, vista oggi in un negozio
Tezenis: “Disponibile solo per gli uomini
famosi”, recita la scritta sul vestito.
Quindi, dicevamo, vi fa schifo, no? E allora perché non vedo o sento
non dico gente che strappa i manifesti a mani nude ma nemmeno qualcuno che fa
sommessamente notare la cosa? Fioccano, invece, gli appelli al “libero
arbitrio”.
Cioè, comprare e
indossare quel vestito deve essere possibile, una scelta libera, di cui appunto
l’acquirente si prende la responsabilità e le conseguenze relative alla sua
immagine. Idem per canzoni come quelle in cui Fabri Fibra vaneggia di strappare
“le ovaie con un uncino”, o per le ragazze con le mutandine abbassate nei
cartelloni.
I sostenitori della libertà,
quindi, considererebbero normale anche ammiccare all’omicidio o alla pedofilia,
per esempio.
Attendo i famosi distinguo, che però dipendono solamente della
percezione sociale che noi abbiamo delle cose, e che svela appunto quale è
l’importanza dell’essere umano di sesso femminile nel nostro mondo, anche nelle
menti più illuminate.
Perché gli uomini, i nostri compagni e amici, invece spesso si irrigidiscono,
qualche volta bonariamente assecondano come se fosse una simpatica stravaganza,
e altrettanto spesso si sentono a disagio? Perché è una cosa “nostra”, questa
degli insulti alla nostra immagine sociale? Eppure sono certissima che se
venisse utilizzato il pisello per analoghi esperimenti di marketing (perché di
questo si tratta: la carne delle donne, comunque sia trattata, vende), ci
sarebbe una sollevazione popolare.
E’ una cosa anche loro,
invece, che riguarda l’educazione delle prossime generazioni e il possibile
raddrizzamento di queste ultime. Senza l’impegno di tutti non possiamo farcela,
e gli uomini intelligenti dovrebbero
esprimersi quanto e più di noi donne contro certa immondizia, che insulta
pesantemente pure loro e fa apparire il sesso maschile come puramente
animalesco, morboso, negativo, contrapposto.
La cosa che più mi
sconcerta è che molte donne si
infastidiscono quando vengo o toccati questi argomenti. Come se fosse una
vergogna interessarsi a questioni di genere, come se il problema fosse
superato, come se l’oltraggio peggiore fosse quello di essere definite, anche
alla lontana, “femministe”. A me lo dicono da quando avevo più o meno 16 anni,
semplicemente perché affermavo di voler lavorare e avere una famiglia, che invece doveva – e deve, e infatti di
solito è- essere al primissimo posto nella scala delle priorità. Questo non
avveniva negli anni Quaranta, ma nei Novanta.
Sono ancora, pare,
femminista e sono sopravvissuta decentemente, nemmeno diventando brutta come
una vera attivista deve essere, nello sciocco immaginario conservatore.
E da vent’anni quella domanda mi
perseguita: ma perché le donne si vergognano di interessarsi a se stesse- e di
manifestarlo?Etichette: cesare cantù, donne, femminismo, fiorella sanna, francesca madrigali, genere femminile, lorella zanardo, parità di genere, pubblicità, senza chiedere il permesso, uomini