47, 53, 47: non sono
numeri da giocare al Lotto, ma le età delle persone che si sono tolte la vita in Sardegna negli ultimi giorni. Altre caratteristiche comuni: maschi, avevano
perso il lavoro o erano schiacciati dalla crisi economica che lo riduce
drasticamente soprattutto nel caso dei lavoratori autonomi. Fatti terribili, da trattare con rispetto, senza fare delle difficoltà umane una bandiera ideologica anti-tasse, anti-austerity, anti-euro e via banalizzando certi eventi insondabili, drammatici. Umani.
Un tempo si
chiamava “mezza età”, e indicava che stavi guardando crescere i nipotini, eri
ancora attivo ma cominciavi a godertela un po’ dopo anni di lavoro, e insomma
andava tutto bene, tutto regolare.
Oggi potremmo chiamarla “età di mezzo” e sembra
coprire una indefinita terra di nessuno che va dai quaranta-e-qualcosa ai
cinquanta e ben oltre: un luogo diventato pericoloso, che può nascondere la
sabbie mobili di un fallimento dell’azienda per cui si lavora, di una crisi
economica che trasforma tutti in cattivi pagatori, di un mercato che si credeva
invincibile e invece soccombe alle ristrettezze di tutti i giorni.
Parafrasando quel
bellissimo titolo di Carofiglio, non è il passato, ma il futuro ad essere
diventato una terra straniera, minacciosa, incerta. Soprattutto se non si è più
tanto giovani (termine assai relativo), e se per tutta la vita si è stati
fiduciosi nel miglioramento necessario,
logico, delle cose. Almeno fino a qualche anno fa, quando l’epidemia di
disoccupazione dei figli altrui, oltre che propri, si è mostrata in tutta la
sua forza.
La minaccia del futuro – quello spicciolo, delle cose di ogni giorno, del fare
dei piccoli progetti che fino al tempo dei nostri genitori avevano
l’affascinante caratteristica dell’ovvietà- è diventata, mi sembra,
trasversale: colpisce i giovanissimi, solo apparentemente spensierati ma a
forte rischio di nichilismo preventivo, i quasi-giovani (30 anni e giù di lì),
che arrancano nella giungla della precarietà e non hanno conosciuto altro, e i
40 enni che hanno sperimentato tutto, compreso il marchio d’infamia di aver
avuto tutto dai loro genitori e di non averlo saputo – o potuto, che è anche
peggio- metterlo a frutto.
Leggo parole di
cordoglio, di sgomento per le persone (persone, oltre che casi, numeri, simboli
e statistiche: persone con famiglie, amici, figli, colleghi, il tragico
“indotto” della disperazione) che si sono arrese allo sconforto di non riuscire
a lavorare, e mi sembra che non servano a molto, se non a ricordarci che il
lavoro è tutto o quasi per l’essere umano, e allo stesso tempo è niente se la
sua controparte è la morte.
Il lavoro e' identita',e le persone soffrono se ne
sono prive, se non trovano un posto nel mondo,se non ne ricavano almeno una
vita dignitosa. E se sono nell’età di mezzo è, forse, ancora più difficile:
perché non si ha più la capacità di recupero dei giovani né il rassegnato
cinismo degli altri.
In questo tempo di paura
per il futuro, di incertezza feroce con la quale cerchiamo di convivere
navigando a vista, sapendo che la terra straniera potrebbe accoglierci ma anche
respingerci e in qualche caso l’ha già fatto, la difficoltà mi sembra quella di
vivere giorno per giorno, aggrappandoci agli affetti e soprattutto a noi
stessi, non rinunciando a quello che
siamo, una essenza profonda che in molti casi ri-emerge con più forza proprio perché non ha
nulla da perdere e nulla a cui essere sacrificato.Etichette: cirsi economica, disoccupazione, disoccupazione adulta, equitalia, francesca madrigali, la mia generazione, lavoro in sardegna, morti per il lavoro, sardegna, suicidi in sardegna, suicidi per il lavoro