Sono intorno a noi, tutti ne conosciamo almeno una
(io ne conosco perfino uno, uomo). Vivono la loro condizione in diverse
modalità, com’è ovvio: sono soddisfatte, tranquille, nell’equilibrio del
dare/avere e dei pro e contro hanno capito che è meglio così, oppure si sono
adattate senza particolari traumi o li hanno superati. Poi ci sono quelle che
non si rassegnano, soffrono quasi di uno stress post-traumatico da perdita del
lavoro e arrancano dietro al nuovo ruolo che il destino ha loro imposto. Infine,
quelle più giovani, che si considerano solo temporaneamente a casa, nonostante
la loro età media non sia proprio verdissima (e di questo dovrebbero tenere
conto).
Finalmente qualcuno si è accorto della loro
esistenza: le casalinghe. Cioè, le donne che lavorano soltanto in casa, nella
cura della famiglia (spesso in tutte le sue ramificazioni di ogni età). L’Assessorato al Lavoro della Provinciadi Firenze ha infatti commissionato al Dipartimento di Scienza della Politica e
Sociologia dell’Università una indagine nata per dare voce alle casalinghe di oggi e
metterle al centro della pianificazione dei servizi per l'impiego: capire come
loro stesse si vedono, come valutano la loro attuale situazione lavorativa e le
loro aspirazioni.
La ricerca, presentata nel dicembre 2012, individua
alcune tipologie di casalinga: “soddisfatta”, “adattata”, “per forza” e
“temporanea”.
Le ultime tre, quindi la maggioranza del campione, possono essere
serenamente considerate un calcio nei denti al nostro sviluppo economico, e non
certo per loro volontà. E’ ormai pacifico che l’occupazione femminile è un
formidabile strumento di crescita economica, strettamente correlato alla
presenza di servizi per la famiglia e la comunità.
L’Italia, come spesso accade, è lontanissima dagli
standard europei (gli obiettivi di Lisbona parlavano del 60% di occupazione
femminile, noi siamo intorno al 47%) e all’interno del nostro Paese lo scenario
cambia molto a seconda delle diverse aree geografiche. La questione
dell’occupazione femminile non è ancora una priorità nella pianificazione
economica generale: si continua, nel senso comune, a considerarla secondaria
rispetto a quella del “capofamiglia”.
Il nostro modello culturale di
riferimento è sempre quello della famiglia standard, così come mostrato – non
mi azzardo a dire “dimostrato”- dai piccoli esempi di ogni giorno. La coppia di
anziani che giustifica con il conoscente il fatto che la propria figlia non sia
sposata, ma “sia andata comunque a stare per conto proprio, mah”; tutti coloro
che in questi ultimi anni mi hanno “consolata” per la mia situazione lavorativa
instabile con un rassicurante “vabè, ora ci sono i bambini, non avrai tempo,
certo non ti annoi”. Ovviamente, ben lungi dal rassicurarmi, la prospettiva
della casalinghitudine a vita mi ha gelato il sangue nelle vene.
Perché il
punto non è “occupare il proprio tempo”, o non solo: il punto è lavorare.
Le donne della mia generazione, spesso guardano con
orrore a questa parola: casalinga. Io stessa ho cominciato a discutere della
faccenda già verso i vent’anni, quando alcune amiche, vere e proprie “mosche bianche”
all’epoca, manifestavano la volontà poi pienamente realizzata di essere
soprattutto mogli e madri. Il lavoro poteva aspettare, finchè c’era lo
stipendio maschile in casa. Spesso, alle mie perplessità, mi si rivolgeva già
allora l’ingiurioso epiteto di “femminista”, “quelle (arpie) che hanno rovinato
la relazione di coppia” eccetera. Cosa c’entrasse non l’ho mai ben capito (anzi
sì, ma questa è un’altra storia). Nel frattempo, io come moltissimi nati negli
anni 70 (decennio che ci ha portato sfiga e , in aggiunta, di cui non abbiamo
vissuto né la musica né i mutamenti sociali, beccandoci invece in pieno la
dance anni 90 e Berlusconi), studiavo all’università avviandomi verso un
luminoso futuro e non accorgendomi che ce lo eravamo lasciato alle spalle.
Oggi noi siamo, mediamente, una generazione che
naviga a vista nell’ambito professionale, e spesso anche in quello privato
(basta pensare ai nostri tassi di fecondità e di invecchiamento della
popolazione), mentre le mie amiche dei vent’anni - casalinghe in direzione
ostinata e contraria - hanno trovato un lavoro di qualche tipo e hanno figli
adolescenti. Non voglio praticare la sciocca “statistica aneddotica”: il fatto
che io abbia visto accadere questo non è certo la regola, ma qualche
riflessione la merita.
Abbiamo perso tempo a studiare? Potevamo agire
diversamente o siamo stati molto, troppo influenzati dai modelli culturali
delle nostre famiglie, che non sembrano più funzionare oggi , vedi i discorsi
della “gavetta”, dell’ “imparare un mestiere”: se la mia nonna materna,emigrata dal Veneto da sola per fare l’ostetrica nel Campidano, vedesse itirocini che propone la Regione Sardegna oggi, si rivolterebbe nella tomba.
Siamo messi così, oggi:
apparentemente evoluti, ma pronti a dimenticarci dell’evoluzione. Ancora
consideriamo il termine “femminista” (nel senso di chi si interessa alle
questioni di metà della popolazione mondiale) un insulto o una bizzarra
caratteristica. Ancora oggi sento e leggo pochissime voci maschili che
esprimano un’opinione o un pensiero sulla vita delle donne, sul loro lavoro o
non-lavoro, mentre noi siamo sempre fin troppo pronte a parlare, dire, fare
brigare e disfare. L’importante, come dire, sarebbe che non ci accontentassimo
più di parlare e basta.Etichette: casalinga per forza, casalinga per scelta, casalinghe, casalinghe tra scelta e necessità, crescita Pil, femminismo, francesca madrigali, obiettivi di Lisbona, occupazione femminile, Ocse, provincia di Firenze