Il Censis
fotografa l’Italia, ed è una fotografia sgranata, fatta di molte sfumature di “risparmio,
rinuncia e rinvio”. E rabbia: quella di non potersi permettere nemmeno gli
sfizi, le “coccole” quotidiane, che diventano piccoli lussi per un ceto medio
ormai piccolissimo.
Ieri ho trovato
nella casella della posta l’invito di una nota gioielleria cittadina che si
rivolge a mio marito con un “Gentile professionista…”, e questo, più di tante
definizioni sociologiche, indica come e quanto è cambiato il concetto di
“professionista”. Ieri benestante, si suppone, tanto che la gioielleria pesca
negli elenchi del suo Ordine; oggi (e negli anni precedenti) lo stesso
professionista si è fatto due grasse risate al pensiero di essere stato
assimilato a quel tipo di benessere
economico.
Anche perché (sempre dati Censis) la quota di famiglie con una
ricchezza finanziaria netta superiore a 500.000 euro è raddoppiata, passando
dal 6% al 12,5%, mentre la quota di ricchezza del ceto medio (compresa tra i
50.000 e i 500.000 euro, e comprensiva anche dei beni immobili) è scesa dal
66,4% al 48,3%. La forbice tra chi può (e ha sempre potuto) e chi non può più
dunque si allarga.
Molti si
lamentano perché la mia città, Cagliari, non mostra un tripudio di luminarie
natalizie; e soprattutto i più piccoli forse amavano certe esagerazioni
stroboscopiche che non so quanti clienti veri portassero nei negozi, o quanto
invece fossero semplicemente un modo per dimenticare che lo shopping -natalizio
e non- è da tempo, per scelta vera o forzata, più low cost e meno scintillante.
La verità è che noi abbiamo bisogno di comprare e di possedere; abbiamo bisogno
di fare delle cose.
La colazione al
bar, al di là delle battute stupide di certi politici che liquidano la crisi
con i locali pieni, è un simbolo quotidiano della resistenza testarda all’austerity che impone la rinuncia
a qualsiasi variante del superfluo. La rinuncia assoluta è per i duri e puri,
gli altri cercano di “resistere alla pressione”.
Perché anche di
questo si tratta: adattarsi al lavoro che non c’è più o c’è stato poco (attualmente
sono 2.753.000 i job seekers cioè impegnati attivamente nella ricerca, poi ci
sono quelli che il lavoro non lo cercano più), il benessere di due decenni fa
che sembra un sogno (o un incubo, visti gli sviluppi), la difficoltà di portare
troppo spesso la macchina dal meccanico o i balzelli surreali come l’IMU sulla
casa in cui si abita, tutto questo preme sulla quotidianità.
I teorici della
decrescita “felice” forse volevano dire un’altra cosa, ma l’obiettivo di una
nuova sobrietà lo raggiungeremo comunque,e probabilmente sarà un bene,
nonostante gli scompensi e i contraccolpi psicologici dati dalla sensazione che
anche respirare costi dei soldi.
Mentre penso a
tutto questo mi chiedo quale sia la strada giusta, il modo per riconsiderare il
respiro e la colazione al bar delle cose da concedersi senza angoscia, sensi di
colpa, smarrimento.
Praticare l’austerity integralmente fin dove si può e si
riesce, in costante libertà vigilata, in attesa di tempi migliori, ricordando
che le generazioni precedenti hanno sperimentato ben di peggio (per inciso: per
fare stare meglio noi, e guarda un po’ come sta andando a finire)? O cercare di
sfuggire alla cupezza che questi tempi difficili portano con sé, magari con il
dolce anestetico di qualche luminaria natalizia in più, un cappuccino caldo o
un pranzo fuori ogni tanto, insomma qualcosa che aiuti a passà ‘a nuttata?
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