La ragazza con la frangetta è tornata a casa. La contentezza
che ho provato e manifestato non è stata scalfita dal commento di un
minus
habens che mi ha chiesto stizzito:
ma perché? Ma se non la conosci nemmeno! Ma
cosa te ne frega, se fosse mia figlia certo, ma così, boh…ah e poi non voglio
sentire che adesso questa se ne vuole tornare in Africa, eh!”. Ognuno, nel mio cervello
politicamente troppo corretto, è certo libero di pensarla come vuole, più o
meno. Però, certo, talune esternazioni indicano soprattutto un grave deficit di
umanità, di empatia, chiamiamola come vogliamo: sono
forti deficit emotivi,
incurabili.
La storia (fortunatamente a lieto fine) di Rossella Urru è bella
anche per questo: perché, personalmente ma anche collettivamente, ci ha
permesso di capire che siamo ancora umani nel senso più pieno del termine. Ci
preoccupiamo, “palpitiamo” come ha detto il gelido professor Monti, per
qualcuno che non conosciamo nemmeno ma che sentiamo vicino come se fosse mia
figlia, appunto (poveri handicappati emotivi!), mia sorella, la mia amica.
Tante volte mi sono chiesta se la mamma di Rossella riuscisse, ad esempio, ad uscire
per comprare il pane, cioè, a fare i soliti gesti che nella loro quotidianità
hanno il seme della fiducia: che tua figlia sia viva, stia bene, sorrida come
nelle foto che abbiamo imparato a conoscere anche noi e come al fatto al
ritorno a Ciampino.
Le vorrei proprio chiedere questo, alla mamma di questa
ragazza che ha confermato la nostra capacità di “sentire” l’altro da noi.
E’andata bene, e sono felice di questo, e con me anche il pescivendolo del
mercato che aveva nel box un grosso cartello con su scritto “Rossella, una di
noi”, e anche chi ha attaccato un foglio alle tendine laterali della macchina
con il suo nome.
Non credo che il desiderio di tornare al suo lavoro ci
scandalizzerà particolarmente, perché noi normali, noi umani, capiamo anche questo,
nella sua semplicità.
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