Il capello nella pizza.

Scommetto che ce l’abbiamo tutti l’amico/a schizzinoso: non beve dalla nostra bottiglietta, scruta attentamente i bicchieri al bar per individuare gli aloni sospetti e nei casi estremi non prende il caffè fuori perché chissà come (non) lavano le tazzine e quante malattie si possono prendere al ristorante.
Tutto legittimo, per chi ci presta attenzione: io, ad esempio, nella fregola con le arselle ne ho trovato una semichiusa, incautamente l’ho aperta trovandoci dentro l’inferno (con tanto di esalazione tossica), ma può capitare e in ogni caso chissenefrega, confido nei miei noti piccoli guerrieri ninja nello stomaco (come dice una mia amica, allibita dalle cibarie che mando giù con nonchalance).
Quindi ho spostato l’arsella e mi sono sbafata tutta la fregola fino all’ultima pallina di semola, gnamm!, senza particolari conseguenze e anzi dormendo come un angelo.
Invece le persone, diciamo così, “più attente”, immancabilmente trovano il rossetto sul bicchiere, lo scarafaggio nelle merendine, la muffa sul gelato e il capello nella pizza. Sarà la legge di Murphy o del dantesco contrappasso, che ne so io che non guardo mai niente (e chissà quanta muffa ho ingurgitato).
Però ultimamente capita anche a me una specie di capello nella pizza, cioè una serie di accadimenti che vanno a battere proprio dove il dente duole. E’ nota la mia passione per lo studio del fenomeno degli Accozzoli: ebbene, il Cielo mi manda prove di sopportazione con una frequenza sospetta, segno forse che anche in questo campo devo un po’ diminuire la mia attenzione, ne va del mio fegato esattamente come nel caso di una intossicazione alimentare da batterio dentato del più infimo bar.
Per esempio, se vado in un palazzo dell’amministrazione pubblica in cui i “commessi” al piano (e a tempo indeterminato) guadagnano più di un ingegnere elettronico con dieci anni di esperienza (e un co.pro) e li vedo stravaccati sulla scrivania, due per piano, a chiacchierare del più e del meno, per me e per il mio fegato è assai peggio del virus intestinale.
Se incontro il più alto dirigente di un altro ramo dell’amministrazione pubblica in cui anche per fare l’usciere ci vuole la raccomandazione del sindaco (la cui figlia ci fa la segretaria) e nella cui sede incontro una ex collega che ora ci lavora e casualmente anche il marito, e poi vengo accompagnata da un altro dirigente che mi spiega come anche sua moglie lavora lì e si meraviglia che io non trovi lavoro e mi suggerisce che comunque “all’estero se ne trova”, ecco, dicevo, se questi dirigenti di un ramo della pubblica amministrazione mi parlano dei danni del clientelismo e della necessità della meritocrazia, ecco, io credo che preferirei un ciuffo di capelli nella pizza o nella fregola piuttosto che questi esercizi di autocontrollo, disciplina nella quale comincio a faticare un po’.

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