Fenomenologia del colloquio di lavoro

Che trovare un lavoro non fosse esattamente una passeggiata l’avevamo capito, e tuttavia i risultati di una indagine del network Mio Job (La Repubblica) insieme all'Associazione dei direttori delle risorse umane (Gidp/Hrda), suscitano interesse e una certa curiosità, soprattutto rapportati ad alcune esperienze “sul campo” in Sardegna. E’ stata raccolta l’opinione di 120 direttori del personale e di 3.050 candidati.
Il 59% dei datori di lavoro interpellati, secondo l’indagine, preferisce valutare con molta attenzione le persone che si presentano e, prima di offrire un posto di lavoro, chiede ai candidati migliori di tornare tre volte o anche di più. Minore invece la quota di imprese (il 39%) che incontra due volte il candidato mentre solo il 2% si accontenta di un unico incontro per valutare le qualità dei candidati. Si tratta di un caso molto raro: la tendenza è quella di strutturare la selezione in più fasi, sia che si tratti di un reclutamento “di massa” che di una mansione specifica.
I potenziali lavoratori sono un po’ nomadi: il 21 per cento ha sostenuto l’ultimo colloquio in una regione diversa da quella di residenza e il 5 per cento addirittura in un’altra nazione. Un altro quarto è andato in una città diversa da quella in cui abita anche se nella stessa regione.
Dall’indagine scopro che quello che sembrava un lavoro stagionale di tre mesi in un grande resort della Costa Sud è in realtà una posizione dirigenziale: così sembrerebbe secondo quanto afferma Pietro Foschi di Bureau Veritas Italia, per cui “per posizioni dirigenziali diventa tassativo l’incontro con la Direzione Generale ed, in alcuni casi, con il responsabile funzionale a livello di Gruppo. Più che il singolo colloquio, è l’insieme dei colloqui che il candidato deve sostenere prima della chiusura a determinare la decisione”. Foschi forse trasecolerebbe nel sapere che in Sardegna, nel 2006, la direzione generale e i responsabili di settore del resort in questione mi hanno ricevuta in tre contemporaneamente, un po’ come agli esami universitari, ma in ballo c’era un posto alla reception. Forse mi sfugge l’importanza di siffatto ruolo, forse avevano tempo da perdere o forse anche un lavoro stagionale di 12 ore al giorno è diventato merce rara come un lavoro da dirigente e come tale viene presentato?
La corsa di chi cerca un lavoro è fatta di ostacoli comprensibili e di altri la cui logica, spesso, francamente sfugge. Fra i primi abbiamo ovviamente la ricerca di informazioni: il 54% dei selezionatori qualche volta raccoglie informazioni e il 12% lo fa sempre prima di chiamare una persona per un incontro. Spesso chiedono alla propria rete di conoscenze e ai colleghi della propria azienda, e di rado contattano l’impresa dove lavora il candidato o fanno anche una ricerca del suo nome e cognome sui motori di ricerca di internet. Fra le procedure misteriose abbiamo invece il “mancato avviso”, ossia l’abitudine di dare un preavviso brevissimo: il 42 per cento degli aspiranti dice di essere stato chiamato con solo due o tre giorni di anticipo e un altro 12 per cento ha avuto solo un giorno per prepararsi. La velocità e la disponibilità assoluta sono dunque requisiti opportuni se non indispensabili, supponendo che non si tratti di difficoltà da parte dei selezionatori di organizzare l’agenda dei colloqui.
Un quarto di chi cerca lavoro nell’ultimo anno ha sostenuto più di sei colloqui di lavoro con diverse imprese e di questi il due per cento è arrivato a sostenerne più di venti, evidentemente senza esito. Senza arrivare a questi livelli parossistici (oltretutto impensabili in Sardegna per oggettiva mancanza di opportunità), il 51% ne ha comunque sostenuti fra due e cinque. E’ sufficiente per farsi una discreta esperienza e talvolta anche due risate: mi raccontano di un colloquio in cui è stato chiesto il segno zodiacale. Comunque, ben il 64% dei selezionatori chiama meno di sette persone per assegnare un posto di lavoro e un quarto ne chiama tra sette e dieci. Solo il dieci per cento fa arrivare alla fase finale più di dieci candidati. La metà delle imprese poi somministra anche dei test tecnici e di personalità. Si tratta delle sequenze grafiche, geometriche e logiche che ti sprofondano nell’ansia da Settimana Enigmistica, nonché nello sconforto da incapacità di comprendere il nesso tra le serie di triangoli, pallini, parallelepipedi e il rispondere a un telefono. Si tratta appunto dei test che abbassano drasticamente il numero di candidati: l’ultima volta, eravamo rimasti in cinque “highlander”, da una ventina iniziali. I test di “personalità” sono le temibili “simulazioni di gruppo”, ovvero una specie di psicodramma collettivo col quale si deve dimostrare in 10 minuti, con altre persone mai viste prima, che si è capaci di mediare i conflitti, risolvere i problemi, lavorare in gruppo.
Interessante il giudizio che i candidati danno di questo articolato meccanismo di reclutamento. Il 45% ritiene che “l’esaminatore non si sia potuto fare una giusta opinione” anche se la gran parte ha detto di avere affrontato con tranquillità l’incontro. La cosa peggiore, malcostume diffuso e segnale, questo sì, di scarsa organizzazione e cura della propria immagine aziendale, è quello di non comunicare l'esito del colloquio : il 41% dei candidati, secondo l’indagine GIDP – MIOJOB, dice di non avere ricevuto alcuna notizia dall’impresa.
Inoltre, dopo tutto il percorso, può accadere anche che il candidato rifiuti l’offerta di lavoro. Quali sono i motivi principali dell’amara conclusione dell’odissea? Per il 21% “Non era coerente con i miei studi”, che può significare un sussulto di dignità della persona o la possibilità economica di aspettare tempi migliori, perché i casi di coerenza fra percorso di studi e lavoro accettato sono assai rari. Per il 25% “la tipologia di contratto non era stabile”, ma visto che il sistema economico attualmente propone esclusivamente forme di precariato prenderei con le pinze il dato. Per il 7% “era lontano dalla mia residenza” e per la percentuale più consistente, ben il 47% , “la retribuzione era troppo bassa”: significa che si è dovuto aspettare che finisse il tunnel per sapere a quanto ammonta l’offerta economica. Può capitare, ad esempio, al quarto incontro con un call center che effettua servizi inbound e outbound per grossi clienti, che al momento cruciale offre 30 euro lordi al giorno per otto ore di stage. Perfino il selezionatore sembra imbarazzato e abbozza: “vista la sua seniority, francamente glielo sconsiglio”. Vabbè. Almeno è stato più educato di quell’altro che mi ha detto un po’ scocciato la famosa frase ormai diventata un classico di questo mercato lavorativo livellato verso il basso: “ma lei, con questo CV, cosa ci fa qui? È troppo qualificata per questo lavoro”! Questione che non si pone in altri Paesi del mondo, dove il lavoro considerato “poco qualificato” è di solito temporaneo, semplicemente un passaggio verso una più opportuna collocazione e non come la Terra Promessa in cui stanziare il più possibile. Ma questa è un’altra storia.

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